«La classe dirigente che non c'è» di Enrico Mattei

Durissimo con il governo: Forza Italia, Lega, An non hanno cultura politica Durissimo con il governo: Forza Italia, Lega, An non hanno cultura politica «La classe dirigente che non c'è» Bocca: il Nord s'è rotto, non sa governare IL «NORDISTA» DELUSO LA SALLE (AOSTA) DAL NOSTRO INVIATO «Certo che attraversiamo un periodo schifoso. Credevamo di aver toccato il fondo. Invece...». Sprofondato nella solita poltrona, nella sua casa di montagna, Giorgio Bocca ci guarda con l'aria mezzo scandalizzata mezzo divertita di chi scopre, a settantaquattro anni, che non ha ancora visto tutto quello che c'era da vedere. Il suo Metropolis, su «Milano nella tempesta», apparso un anno fa, si chiudeva con la speranza di un ricambio positivo nella classe dirigente milanese e lombarda. Ma nel nuovo libro, Il sottossopra (Mondadori), che uscirà a settembre, prevale il pessimismo: i guasti degli ultimi 15 anni hanno marchiato Milano e disarticolato il Nord. Si può ancora parlare di una classe dirigente settentrionale? Che cosa unisce Milano e Torino, il Veneto e la Liguria? Il Nord si è rotto, nel buco nero di berlusconismo e leghismo. Ecco l'analisi del cronista che attraversa l'ultima temperie. Perché, Bocca, un periodo schifoso? Perché credeva d'aver toccato il fondo e invece? «Perché non c'è classe politica. Perché non c'è cultura di governo. Che cos'è la classe politica espressa da Forza Italia e dalla Lega? Persone di bassa, anzi di nessuna cultura politica, portatori di interessi personali e di gruppo, che odiano i partiti e la vera politica. Siamo di fronte a una gravissima crisi della classe dirigente di questo Paese». Berlusconi, Bossi, Scoglia miglio, Pivetti, Maroni, Moratti, tutti lombardi. Dietro la crisi della classe politica c'è una crisi di Milano e della Lombardia? «Milano e la Lombardia sono una concentrazione di enormi ricchezze, con un accentuato culto del lavoro ma senza cultura del lavoro. Dove hai l'impressione, ormai da parecchi anni, di vivere senza una classe dirigente. La Regione Lombardia è il più grande fallimento italiano, scesa al grado infimo nel momento in cui ha deciso di abbattere gli alberi del Parco di Monza per una gara d'auto una volta all'anno». Che cosa è accaduto della borghesia lombarda e della sua cultura politica e civile? «Quando arrivai a Milano, erano gli anni del centrosinistra. Allora la classe dirigente lombarda era rappresentata da uomini come Mattei e Vanoni, Marcora e Granelli, Pirelli e Bassetti. Oggi chi vedi in giro? L'Ombretta Fumagalli. Personaggini inesistenti. La borghesia non ha più amore per la sua regione. Si è ritirata nei quartieri di via Spiga o via del Gesù, dove vive quasi trincerata. Allora Milano era la quarta città d'Europa, oggi è la ventiquattresima. Molto probabilmente Formentini non è un'aquila, ma è stato abbandonato dalla borghesia milanese». Ma Carlo Scognamiglio ha scritto sul «Corriere della Sera» che la classe dirigente lombarda è espressione dell'intera classe dirigente settentrionale. «Scognamiglio non sa quel che dice: come si fa a parlare di una classe dirigente settentrionale, quasi che il Settentrione fosse tutto un blocco compatto. Mentre le differenze sono enormi. Ma no, è uno stupido. E dov'è la classe dirigente lombarda? Sì, io lo conosco l'ambiente del professor Scognamiglio: gruppi altoborghesi sempre insieme, che invecchiano insieme, nessun rapporto con la città, la loro presenza è insignificante». Il cavalier Berlusconi sostiene di introdurre nella vita politica lo spirito della borghesia imprenditoriale. «Però mi deve spiegare perché, invece di mobilitare tutti i talenti, è riuscito a circondarsi di personaggi privi di ogni credibilità: di yesmen, di trafficoni, di piccoli avventurieri. Per il mio libro ho intervistato Previti, il ministro della Difesa. Cosa vuole, mi ha detto, non avevo nessuna organizzazione elettorale, perciò mi sono rivolto ai ragazzi del msi. Che bravi, che entusiasmo! Mi hanno fatto eleggere loro. E' tutto da ridere o da piangere». E il senatur Bossi, con il suo Carroccio, non rappresenta forse lo spirito lombardo? «Non so che cosa ci sia di più antilombardo di lui. Il lombardismo dovrebbe esprimersi essen- zialmente nel rispetto delle regole: lui si comporta come i giocatori delle tre carte. Come si fa a concepire una politica basata sul ricatto quotidiano? Non ha niente di lombardo, sembra un napoletano». Ma lei disse: grazie Barbari. Deluso? «Deluso, sì. Ma perché è venuta fuori un'anima diciannovista. Non che siano fascisti. Anzi la Lega penso resti un baluardo contro il postfascismo. Ma con questa gente, Bossi, Miglio, lo stesso Maroni, non parliamo di Speroni, è venuta a galla una Lombardia avventurista». Che cosa si salva in questo Nord che si è rotto: dove restano in piedi pezzi di classe dirigente? «Nel mio nuovo libro c'è un capitolo intitolato: Torino dopo la Fiat. Non significa che la Fiat non esiste più, ma che è avvenuta una svolta vissuta drammaticamente: il Piemonte è l'unica regione d'Italia che ha ancora il senso del drammatico. Però nel lungo colloquio che ho avuto con Gianni Agnelli mi ha fatto molta impressione vedere come sia legato alla città un capitalista come lui. Questa storia della rottura dell'antico patto di fedeltà tra gli impiegati e l'azienda credo che lo abbia colpito realmente. Voglio dire che in Piemonte continuano a pesare valori, come la cultura del lavoro, che fanno parte della storia e delle tradizioni di quella società». Ma lei vede una coincidenza di convenienze o vede una classe dirigente portatrice di interessi generali? «Non è che il gruppo dirigente torinese sia fatto di santi o non faccia gli interessi della Fiat. Li fa e in maniera anche pesante, se necessario. Però mi sembra che mantenga un proprio senso di responsabilità, rispetto alla città o alla regione e ai compiti di una classe dirigente. Questa è la differenza fra Milano e Torino. In questo senso il Piemonte può ancora esprimere una cultura politica». Vuol dire che Agnelli è più vicino a Trentin che a Berlusconi? «Ah sì. Senza dubbio. Il mondo del lavoro torinese è sempre stato conflittuale ma fortemente omogeneo. I comunisti volevano dirigere la Fiat meglio degli Agnelli, ma non volevano chiuderla. C'era una convergenza di moralità produttiva e di organizzazione del lavoro». Però la classe operaia è ancora una realtà torinese? «Arrivato a Torino per il mio libro, sono andato dove una volta c'era la sede della Camera del lavoro e non l'ho più trovata. Ho chiesto in giro, a vigili e passanti. Nessuno sapeva darmi indicazioni. Quale Camera? La Camera di commercio? Penso sia giusta la frase che mi ha detto Fausto Bertinotti: gli operai ci sono ma sono invisibili. Cioè sanno di non essere più protagonisti della storia». Quanto deve la cultura politica piemontese all'eredità dell'antifascismo e dell'azi oni sino? «Quella che io vedo più di tutto è una cultura delle minoranze: i valdesi, gli ebrei, le minoranze culturali, Gramsci e Gobetti. Tutte queste erano delle élites. Non sarà un caso se la nuova stampa di destra quando vuole dire qualcosa di veramente odioso dice: le élites». Ma il vice premier Tatarella dice che il governo si difende dai poteri forti: Agnelli, Cuccia, le grandi aziende e le grandi banche. «Cuccia e Agnelli rappresentano semplicemente la razionalità produttiva: se vogliamo buttarli a mare per il piccolo cabotaggio economico, facciamolo pure ma poi non lamentiamoci. Questa offensiva contro le grandi aziende mi ricorda quella del fascismo. Con Forza Italia, Lega, missini viene fuori la stessa piccola borghesia revanscista. I poteri forti, intesi come grandi aziende e grandi banche, sono i fondamenti di ogni Stato. E non si può confonderli con i poteri occulti. Ma se poi penso che devo discutere le opinioni di Tatarella! Uno che chiede la trasparenza sedendo vicino a un presidente del Consiglio che era della P2». Il Nord Est, con i Benetton e gli Illy, che cosa può rappresentare nel Nord di oggi? Può venire da lì una futura classe dirigente? «Il Nord Est e un po' come il passaggio a Nord Ovest, qualcosa di cui si favoleggia sempre e non si sa bene dove trovarlo. Gli industriali veneti che io conosco, dai Lunelli dei vini Ferrari ai Benetton padri e figli, al triestino Illy, hanno ancora un senso dell'avventura e della fantasia imprenditoriali. Solo che non capisci mai se vanno bene perché sono più intelligenti degli altri o perché godono il vantaggio di condizioni anomale. Sono molto effervescenti, ma non si sentono classe generale. Rappresentano quel dissolvimento per cui non esistono più neanche le corporazioni ma solo gruppi di interessi, ognuno con il suo problemino». Il nostro sistema economico può reggersi solo con la Brianza e la marca trevigiana, facendo a meno delle grandi aziende? «Sì, a patto che si accettino livelli generali bassi. Non c'è ricerca scientifica, non c'è progresso tecnologico, si copia dall'estero. Significa che ti adatti a un'economia subalterna, come sta accadendo: tutti i governi europei oggi aiutano l'automobile, noi abbiamo un governo che invece aiuta l'edilizia». E' un mondo a pezzi quello che lei descrive. Il Nord doveva salvare l'Italia: ma qui sembra che la faccia crollare. «La situazione non è allegra. Però voglio precisare che tutte queste cose vanno viste nell'insieme della crisi del capitalismo e della democrazia. Il vero problema di questo governo è che invece dell'alternanza si è creato un sistema senza contrappesi. Squilibrato. Il cavalier Berlusconi è un vincitore nel vuoto». Alberto Papuzzi Bossi? Non ha niente del senso dello Stato settentrionale Sembra un napoletano giocatore di tre carte Scognamiglio e i suoi amici altoborghesi stanno sempre fra loro e hanno abbandonato Milano al suo destino Si salva il Piemonte solo qui c'è ancora responsabilità amore per il lavoro soprattutto rispetto delle minoranze Il leader leghista Bossi In basso, operai in uscita da uno stabilimento Il professor Gianfranco Miglio Fino alla rottura con Bossi è stato l'ideologo del Carroccio Sopra Ombretta Fumagalli Carulli, sottosegretario alla presidenza de! Consiglio Il presidente del Senato Carlo Scognamiglio Nella foto grande, il giornalista e scrittore Giorgio Bocca. A lato, Enrico Mattei, fondatore dell'Eni