Festa e paura a Little Havana di Vittorio Zucconi

Festa e paura a little Havana Festa e paura a little Havana «Altri prof Ughi e la nostra Miami scoppia» RIVINCITA DEGLI ESULI Ai LL'ANGOLO ideila Tredicesima Avenue e della «Calle Ocho», l'ottava strada di Miami, tra edifici «art déco», rosticcerie di polli, spacci di stereo portatili e alberghi in stile colonia marina littoria che danno a questa città la sua aria da Romagna tropicale, stanno le chiavi del destino di Cuba e di Fidel Castro. Non a Cuba, non sulla mitica Sierra, non lungo il Vedado o il Malecon dell'Avana, ma qui, all'angolo della Tredicesima e della «Ocho», si deciderà se l'isoletta che aveva osato sfidare il cielo dovrà pagare sino alla fine il prezzo della sua sfida perduta o se l'America si commuoverà, prima che Cuba diventi un'Haiti bianca. Perché è in questa zona di Miami, «Little Havana», che batte da anni, ma mai tanto in fretta, gonfio di terrori e di sogni, di rancori e di ansie, il cuore di quella comunità cubana in esilio che tiene in pugno la politica cubana della Casa Bianca da quasi 30 anni e impone il mantenimento dell'embargo contro Cuba. C'è molta paura a «Little Havana». Fra tutte le città dentro le città che formano Miami, fra le città dei colombiani, le città degli italiani, le città dei neri, «Little Havana», la città dei cubani, è certamente la più forte, la più viva, la più tormentata. Figlia di una lunga storia di esilii e di fughe politiche cominciate molto prima di Castro con i rifugiati dal regime di Fulgencio Batista, la «Piccola Havana» è esplosa dopo la conquista del potere castrista. Al ritmo di 20 mila nuovi «abitanti» l'anno, dal 1959 a oggi, con la punta di 120 mila nell'anno dei «marielitos», il 1980, quando Castro aprì le sbarre di Cuba a chi volle emigrare dal porto di Mariel, la Piccola Cuba in Florida è arrivata a 700 mila persone. La metà del milione e mezzo di cubani che vivono negli Stati Uniti. Si capisce dunque perché in queste ore di sommosse per il pane all'Avana, in questi mesi del lungo, desolante crepuscolo del Patriarca Barbuto, «Little Havana» e la Florida meridionale vivano scosse da una paura e da una speranza insieme: la speranza che la dittatura castrista sia arrivata davvero all'agonia. Il terrore che nei suoi ultimi spasmi l'isola del «Socialismo o Muerte» vomiti sulle spiagge della Florida un'armada di cento, duecento, trecentomila «ratones y gusanos», sorci umani e vermi, come li chiamava un tempo la propaganda dell'Avana, in fuga verso le coste americane. E' soltanto un'altra delle infinite ironie che accompagnano l'autunno del Patriarca Barbuio che la sola arma rimasta nelle mani di Castro sia il suicidio demografico. Non più il «Che», non più certezze di esportare la «Revolution» e di gettare uno, cento, mille Vietnam fra le ruote dell'America: a Fidel è rimasta solo la minaccia di spalancare un'altra volta i cancelli e lasciare che i disperati tentino l'attraversamento dello stretto di Florida, sfidino i famelici «tiburones», gli squali che brulicano in quei 90 chilometri di mare, e si riversino nr'lle strade di Miami a «Little Havana». Ed è l'altra faccia della stessa ironia storica quell'angoscia che improvvisamente attanaglia la comunità cubano-americana al pensiero della possibile, quasi probabile, invasione dei «fratelli oppressi». Dopo avere predicato, invocato, esortato alla fuga i parenti e connazionali, dopo avere lanciato segnali radio, addirittura messaggi appesi a palloncini, dopo avere ottenuto - unica fra tutte le comunità straniere - il diritto di asilo e quindi di residenza automatica per tutti i profughi dall'«isola-prigione», oggi i cubani d'America rischiano di vedere i propri desideri esauditi. E rabbrividiscono. Nessuna città americana oggi, nell'ora della polarizzazione razziale, dei bilanci comunali in dissesto, della violenza da droga e da miseria, potrebbe sopportare un afflusso improvviso di due o trecentomila disperati, e meno che meno Miami. Dopo gli anni della crescita furiosa, alimentata dal mito di una città «facile», solare, felicemente tessuta di culture anglosassoni, latine, nere e caraibiche, Miami è divenuta una delle città meno gradevoli d'America. La pericolosità delle sue strade è leggendaria nel mondo, dopo la serie di omicidi, aggressioni e rapine a turisti stranieri che accesero le prime pagine e i telegiornali di tutt'Europa, qualche mese addietro. Il «melting pot», il pentolone razziale, ha smesso da tempo di fondere etnie e culture diverse e ciascun gruppo vive oggi arroccato nei propri ghetti di intransigenza e di rancore. I bianchi, soprattutto i vecchi bianchi ricchi scesi da Nord come cicogne in cerca di un ultimo sole, non perdonano a bruni, neri, latinos, di averli derubati dei tanto desiderati paradisi tropicali. Formano uno dei gruppi elettorali più compatti e conservatori d'America: in Florida la forca funziona a pieno ritmo. Gli altri, gli esclusi, si battono spesso con il coltello e la «Glock», la pistola automatica, per strappare brandelli di un paradiso che non possiederanno mai. In mezzo, c'è la piccola Cuba, ci sono i 700 mila cubani straziati fra il desiderio di vedere Castro crollare e il terrore di dover pagare le conseguenze economiche e sociali di quel crollo. Duecentomila fra loro hanno avuto parenti stretti rinchiusi nei gulag castristi e non è tanto facile perdonare. Votano ancora compatti e questo ne fa una lobby formidabile, proprio nel cuore di uno Stato come la Florida che è divenuto decisivo nella geografia elettorale americana: godono dunque di una invidiabile rendita di posizione politica sproporzionata rispetto alla loro forza numerica. Riescono a imporre a presidenti diversissimi fra loro, dal Kennedy della Baia dei Porci al Clinton delle solite buone intenzioni, passando per Nixon, Reagan e Bush, il mantenimento e il rinnovo delle sanzioni che tanto contribuiscono ad affamare Cuba, a stimolare il suo orgoglio nazionalista e a mantenere a Castro la pur logora aureola di «lider màximo anti imperialista». Non sono più monolitici nel loro anti castrismo, ma i leader più forti zittiscono ogni voce di dissenso. Il più vocale e il più intransigente, Jorge Mas Canosa, è stato ripetutamente accusato di impiegare metodi mafiosi e terroristici per intimidire chiunque osi azzardare l'ipotesi che sarebbe ora di finirla con un embargo che sta affamando proprio i fratelli cubani senza abbattere Castro. Qualcosa di vero ci deve essere in queste accuse, riprese anche dal grande quotidiano di Miami, lo Herald, visto che due anni or sono, quando il Congresso americano discusse l'ultima versione delle sanzioni, la «legge Torricelli», i senatori contrari non trovarono un solo esponente di Little Havana disposto a testimoniare contro Mas Canosa. E' lui il personaggio che sogna di sbarcare a Cuba come «salvatore» dell'isola dopo Fidel. E diventare, si mormora a Miami, il nuovo Fulgencio Batista. Dovrebbero dunque essere giornate di gioia, o almeno di soddisfazione, queste per i cubani di «Little Havana», e non lo sono. La prospettiva di una nuova armada di morti di fame che emerge dal Caribe per gettarsi sulla sabbia della Florida, insieme con gli haitiani, non inorgoglisce certo i cubani, che hanno faticato molto per conquistarsi il rispetto dell'America, il successo economico, la forza politica e ora non vogliono certo essere ributtati nella stessa barca con gli haitiani. L'agonia del ca¬ strismo è benvenuta, anche dai più moderati, ma nel fondo di ogni cubano un pizzico di inconfessabile orgoglio doveva esserci: Cuba senza Castro sarà forse un'isola più vivibile, ma tornerà a essere soltanto un'altra fra le mille isole e isolette insignificanti delle Antille Grandi e Piccole. E Bill Clinton, intrappolato come sempre fra le sue buone intenzioni e le sue incerte azioni, si trova con una possibile, seconda Haiti fra le mani. Senza aver neppure cominciato a risolvere il problema della prima. Le tre stazioni radio cubane di Miami, Radio Cubanissimo, Radio Mambi e Radio Progresso, sono inondate di telefonate e di polemiche fra chi vuole partire subito per Cuba, chi vuole la «muerte» dell'isola e chi dice basta con l'ideologia, aiutiamo i nostri fratelli a non morire di fame. Dovrebbe essere in festa, «Little Havana», la città costruita sugli errori di Fidel, ora che Fidel vacilla. Ma nessun uomo o donna di buona volontà può fare festa davanti allo spettacolo di un popolo come quello cubano che soffre inutilmente nella morsa di due ideologie che lo schiacciano e lo spremono, nel nome di una Guerra Fredda finita ovunque, meno che qui, fra i «tiburones» degli stretti della Florida. Vittorio Zucconi Un'armata di morti di fame rischia d'infrangere il sogno americano degli anticastristi ormai vittoriosi