Philby, amico illuso

i L caso. A Mosca come in gabbia: un ex agente del Kgb racconta i L caso. A Mosca come in gabbia: un ex agente del Kgb racconta Philby, amico illuso La vita infelice della super-spia MOSCA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Appuntamento nel bar di un grande albergo, tavolino d'angolo, proprio dietro il pianoforte a coda, un garofano rosa sul tavolo. Essere stati spia è come aver preso una malattia da cui non si guarisce più: si perde il pelo, ma non il vizio di dare appuntamenti romanzeschi. Mikhail Liubimov, adesso, ha il pelo bianco e il faccione colorato di chi trascorre più tempo in dacia che non in città. L'estate moscovita è stata bellissima, quest'anno. Siamo nella via più centrale di Mosca, che adesso si chiama Tverskaja, ma quando ci passeggiava con Kim Philby si chiamava Gorkij. Il capo della sezione anticomunismo dell'Intelligence Service, il «terzo uomo» della spy story più celebrata della guerra fredda, abitava qui dietro, in vicolo Sadovskikh. Su questi marciapiedi Philby, che nel 1963 aveva lasciato l'Occidente per servire il comunismo e il Kgb, passeggiava raccontando il dolore della delusione al suo amico Liubimov, capo della sezione inglese della Lubjanka. L'ex spia sovietica, che ora ha 66 anni ed è in pensione, ne ha fatto un libro (titolo provvisorio Appunti di un residente non troppo per bene). Ci anticipa la storia di un'amicizia che è diventata quasi complicità. Mikhail Petrovich, com'è stata la vita di Kim Philby a Mosca? «Infelice». Vuol dire che è rimasto deluso dall'Urss? «Qui ha vissuto controllato, minacciato, ignorato, circondato da un muro di pietra. Gli registravano le telefonate, controllavano ogni incontro, non poteva nemmeno fare un passo da solo». Chi era Philby? «Un eroe tragico, la vittima di un'illusione, un intellettuale accecato dall'idea, un uomo che nella sua vita non ha mai avuto alcun obiettivo materiale, non ha mai chiesto soldi, non aveva l'auto, né la dacia come avrebbe potuto. Non ha ottenuto niente da questo Paese». Lui cosa avrebbe voluto7 «Una cosa molto semplice: ogni mattina alle 9 in punto entrare nel suo ufficio al Kgb. Ma non è successo e non sarebbe stato possibile perché nessuno straniero veniva ammesso alla Lubjanka». Nemmeno Phiìby? «Certo che no. Per questo si sentiva offeso: aveva dedicato tutta la vita alla causa del comunismo. Era entrato nello spionaggio inglese a 28 anni solo per diventare una talpa sovietica. Ma da quando ne aveva 20 lavorava per il Komintern. Non fece mai il doppio gioco, ma un gioco solo: a favore dell'Urss». Perché venne? «Non aveva altra scelta. I sospetti caddero su di lui già nel '51. Ma non c'erano prove. Rimase in Inghilterra camminando sul filo del rasoio. A un certo punto per defilarsi andò a vivere a Beirut facendo il giornalista e continuando a collaborare con l'Intelligence Service. Quando però capì che le prove stavano per essere scoperte si trovò di fronte alla scelta tra 42 anni di galera in Inghilterra o il rifugio in Urss. Scelse di venire da noi. Era il '63 e la sua disillusione verso l'Urss era già cominciata a causa delle rivelazioni sullo stalinismo. Se non fosse stato costretto alla fuga, penso che a quel punto avrebbe troncato ogni rapporto con l'Urss». Come veniva usato dal Kgb? «In tre modi. Come un esperto di cose inglesi: ci servivano i suoi giù- dizi sulla situazione politica, la sua opinione su questo o quel personaggio. Poi erano utili le sue valutazioni sulle informazioni che ricevevamo dai nostri uomini in Gran Bretagna. Infine aveva un ruolo nel lanciare operazioni di disinformazione perché aveva la sensibilità giusta per scrivere un documento falso e farlo sembrare vero. Ma tutto questo lavoro si esauriva in due o tre ore alla settimana». E nel resto del tempo cosa faceva? «Nulla. Sostanzialmente beveva. Ascoltava la Bbc, al mattino andava alla posta a prendersi il Times e il Daily Telegraph. Doveva comunicare al Kgb tutto il suo programma, concordare ogni spostamento. Allora tutto era segretissimo. Ricordo che una volta al Bolshoi in- contro per caso un giornalista inglese, che lo riconobbe. I due si sfiorarono e da noi ci fu un allarme generale. Il Kgb aveva il terrore di Philby, non si fidava». Quando siete diventati amici? «Negli Anni 70, quando divenni capo della sezione inglese della Lubjanka. Parlavamo in inglese, lui conosceva pochissimo il russo, era un uomo intelligente, colto, aveva humour, sapeva comunicare il carattere della lingua e della sua cultura. Davanti alla bottiglia di whisky "single malt" abbiamo avuto molti momenti di sincerità. Ci raccontavamo barzellette antisovietiche, e allora non era uno scherzo». L'ha mai visto contento? «Sì, quando riuscii a organizzare dei corsi per i giovani agenti destinati in Inghilterra. Ci vedevamo in modo semiclandestino in appartamenti segreti sparsi per la città. Una decina di ragazzi, io e lui. Philby comunicava loro il modo di essere inglese, anche nel modo di passarsi la bottiglia di Porto. Sembrava di essere a teatro: lui era il regista che mostrava i gesti agli attori». Rimase sempre a Mosca? «No, viaggiava molto nell'Urss. Era una star, tutti i capi provinciali del Kgb lo invitavano a serate in suo onore. Per quel mondo provinciale presentare le mogli a Philhy era una gran cosa e lui stava al gioco. Una volta andò a Cuba, segretamente, su una nave. Vide Castro e mi portò una scatola di sigari». Il suo dispiacere più grande? «I problemi che nacquero dalla pubblicazione del suo libro. My silent war, tradotta male come La mia guerra segreta, fu un'operazione in cui mise le mani il Kgb. Il libro uscì in Inghilterra ed era considerato come una "azione attiva" del servizio perché conteneva giudizi, messaggi, aneddoti e dettagli destinati a mettere in crisi i rapporti tra Gran Bretagna e Stati Uniti. Per esempio si raccontava di quanto gli inglesi disprezzassero gli americani». E il libro come fu accolto in Urss? «Ci furono un sacco di proteste dal partito comunista inglese, perché da quel che scriveva Philby sembrava che ogni militante comunista fosse una spia sovietica. Il Politbjuro ci mise dieci anni a decidere che si poteva pubblicare anche qui da noi, ma poi venne stampato in sole 30 mila copie, che vennero diffuse in un circuito ristretto. In pratica il libro non fu mai venduto. Questo lo offese. Diceva: ho lavorato tutta la vita per questo Paese c qui nessuno mi conosce». Fu così fino alla morte? «Sì. Philby morì d'infarto a 76 anni, nell'88. Sui giornali comparve un necrologio minuscolo, come se si fosse trattato del direttore di un grande magazzino. E' sepolto vicino a Mercader, il killer di Trockij, e non credo che sia una gran compagnia». Cesare Martinetti «Qui era controllato, minacciato, non poteva fare un passo da solo Gli registravano perfino le telefonate» «All'Urss aveva dedicato l'esistenza, in cambio non ebbe mai niente» Allora tutto era segretissimo. Ricordo che una volta al Bolshoi in- «Qui era controllato, minacciato, non poteva fare un passo da solo Gli registravano perfino le telefonate» "7 mir^M'* Philby: «Entrò nello spionaggio inglese a 28 anni solo per diventare una talpa sovietica». Sopra Stalin