Senada la profuga e Ljiljigna la turista di Giuseppe Zaccaria

I Senada la profuga e IjUjigna la turista Tra la gente di Sarajevo in «vacanza di guerra» I TRISYI DI MAKARSK A MAKABSKA DAL NOSTRO INVIATO Mi rendo conto che partire da due costumi da bagno per raccontare un frammento dell'ex Jugoslavia può apparire eccessivo. Intanto però bisognerebbe avere un'idea precisa dei costumi, che erano due bikini neri marca Faber, dal taglio vagamente retro, tipo nuotatrici Anni Cinquanta, eppure efficacissimi nel reclamizzare se stessi indosso a due giovani signore bionde, stese sotto gli ultimi pini del promontorio. Ora, per evitare che il discorso viri verso risultati non voluti liquiderò l'argomento precisando che la signora bionda del costume numero uno spalmava la sua bellezza sugli occhi dei bagnanti all'Hotel Meteor, mentre la signora bionda del bikini numero due si offriva placida all'ammirazione del mondo sulla spiaggia del Park Hotel. Bellezze diverse ma egualmente notevoli, stessa taglia, più o meno, e perfino l'identico accento, quella cadenza dolce e neghittosa che segnala la provenienza bosniaca. Capirete a questo punto come non sia stato troppo sorprendente, alla fine, l'apprendere che la bagnante del Meteor, cioè Senada Fehimovic, 28 anni, giungesse da Sarajevo esattamente come Ljiljiana Sidran, di 26, la signora della spiaggia accanto. Sennonché quando chiedi a Senada cosa fa a Makarska ti senti rispondere: «La profuga», ed alla stessa domanda Ljiljiana invece ribatte: «La turista». Turisti da Sarajevo, ecco una sorpresa. Turisti autentici, eppure di un genere tutto particolare, turisti a tempo, poco più che evasi. Il vecchio pullman «Icarus» che li riporterà indietro è parcheggiato sotto i pini: ha l'aria di un enorme cellulare in attesa. Ecco come essendo partito solo da due costumi da bagno, qui finisci con l'accorgerti di diverse cose: dell'enorme differenza, per esempio, fra la strana repubblica che sta nascendo sulle isole dalmate, piccola e sfrenata California a un passo dai cannoni, e quanto invece accade qui, all'altezza di Termoli o del Gargano, dove la guerra non è un ricordo ma una sorta di quinta teatrale, affacciata sulle incombenti montagne dell'Erzegovina. La smania di vivere che percorre come una febbre le coste da Abbazia a Dubrovnik qui ha come una sospensione, un'attesa. E se appena varchi il confine segnato da quelle quinte teatrali, ti affacci sulle vallate nascoste al mare, la sensazione si materializza e si colora, si fa metallo e tinte mimetiche. Basta superare il crinale per notare acquartieramenti di carri dove tre mesi fa c'erano solo fienili, campi militari in luogo di fattorie. Si sono riarmati tutti, anche quelli che fino a ieri parevano i più deboli, e più di un amico adesso continua ad annunciarmi: «Questa volta, se la guerra torna a scoppiare sarà guerra vera». Ma non cambiamo discorso, adesso: o meglio, sforziamoci di lasciare sullo sfondo la corsa al riarmo e quel sentore d'Apocalisse che Sembra spandersi con l'o- dorè dolciastro delle creme solari, e restiamo in riva al mare. Qui stiamo parlando di vacanze di guerra. E vi assicuro, mai mi era accaduto di imbattermi in vacanza più intensa e piena, totale e assoluta di quella che, come Ljiljiana Sidran e i suoi due bambini, un piccolo drappello di «turisti» sta trascorrendo nella pineta di Makarska, prima di rientrare a Sarajevo. «Saranno due o trecento, non di più. Li si riconosce subito dalle espressioni...», mi aveva detto il portiere del Park Hotel. Anche dalle abbronzature, direi. Le ragazze dalle spalle arrossate, quegli anziani signori che paiono bolliti e nonostante tutto continuano estatici a riempirsi gli occhi di mare, sono i «turisti». Bisogna capirli: tutti sono usciti da Sarajevo con un permesso temporaneo, hanno viaggiato per 13 o 14 ore, devono tornare perché lì sono rimasti mogli, mariti, genitori o figli più grandi, e hanno diritto ad una settimana di evasione. In tre anni, la prima settimana di vacanza dall'assedio, dalla fame, dalla guerra. A volte basta girare un angolo per imbattersi in cose straordinarie. Fino a 20 km fa, discendevo la costa dalmata per passate da Zara a Sebenico e da Sebenico a Spalato, in una successione di luoghi che tentano di cancellare tutto attraverso improvvise e provvisorie sfrenatezze. Adesso è sufficiente fermare l'auto alle porte di Makarska, dove i cartelli segnalano l'ex grande parco turistico, addentrarsi nel promontorio e scendere con calma la grande pineta che digrada fino al mare, facendo attenzione prima ai gradini poi al gioco dei simboli. Ecco un luogo in cui è impossibile non accorgersi di quale mondo bizzarro stia nascendo a un passo dalle nostre coste, e forse di cosa ci prepara il futuro. Se a Termoli, o sul Gargano, impiantassero un binocolo abbastanza potente da inquadrare questo litorale si noterebbe sugli arenili una popolazione identica a quella delle nostre spiagge ep¬ pure in qualche modo diversa, eccentrica, inquietante perfino. Deve'essere una questione di atteggiamento. Non saprei dire, esattamente, ma se fossi un pittore battezzerei l'opera «Bagnanti tristi». Cosa c'è che non va, signora Senada? «Non va il fatto che sono qui da un anno e mezzo, e vivo in una stanza coi miei tre figli, e non posso muovermi da questa pineta perché non ho un soldo e non saprei dove andare, e ho soltanto il mare come sfogo, e accanto a me c'è sempre la stessa gente, quella che vedo al mattino nei corridoi o alla mensa dell'albergo, e insomma non ne posso più... E non ne posso più neanche di gente come lei, che ogni tanto arriva, porta con sé il fotografo, racconta le tristi storie di noi rifugiati e poi se ne torna dall'altra parte del mare a fare okkei il prezo è giusto». «Il prezo è giusto», ha detto proprio così la bella profuga, con un'improvvisa finestra italiana nella rotonda pronuncia bosniaca. E a parte la piccola scivolata sulla doppia, quello era senza dubbio il titolo di una trasmissione della nostra tv. Pensate, una trasmissione d'intrattenimento (con una parabolica, da qui le nostre emittenti si captano tutte) che ha traversato l'Adriatico prima per rapprendersi in modo di dire, poi per consolidarsi in prospettiva di vita. Non è quello che accadde ai poveri albanesi che clandestinamente guardavano «Colpo Grosso», e immaginavano un'Italia tutta donne disponibili e seni al vento: questa non è un'illusione, è un programma. Non conosce solo frasi in italiano, Senada: anzi, mentre continua a parlare con l'interprete nella morbida cadenza cominciano a fare irruzione i toni aspri del tedesco. Di calcoli in tedesco. «Sai con quanto vivo qui dentro? Zwanzig Deutsche Mark al mese, quando solo per mangiare al ristorante accanto, quello dei turisti, ce ne vogliono vieirzig...». Venti marchi al mese, più o meno ventimila lire, quando il ristorante dei sarajevesi che per una settimana vivono da ricchi ne costa quaranta. Devo dire che la bella Senada ha perso qualsiasi fascino man mano che s'infervorava, e quel suono duro («doiemàrk, doiemàrk...») continuava a tagliare il discorso come la lama di un iceberg. E' vero, qui da tempo i conti si fanno in marchi tedeschi, ma a far paura era quella sorta di conteggio riflesso, indiretto, ossessivo che emergeva dietro ogni frase. Sentite anche Ljiljiana, la turista. Ha appena smesso di grattarsi una coscia (il rossore ha causato qualche bolla), per un po' ha osservato curiosa l'uomo vestito che girava con interprete fra i bagnanti, e adesso sembra felice di potersi sfogare. «Se avessi mai immaginato che posto era questo, sarei rimasta a Sarajevo. Nove giorni di vacanza, Funfzig Deutsche Mark, 50 marchi al giorno. Pensi come potevo sentirmi all'inizio, Non vedevo il mare dal '90, da tre anni e mezzo vivo con l'os- sessione dell'acqua, non ce n'è mai abbastanza... E adesso, dopo l'arrivo a Makarska, quel fantastico stordimento, il primo bagno, le prime risate coi miei figli, mi sento odiata, disprezzata dalla mia stessa gente. Mi accusano di fare la turista, loro che stanno qui senza fare nulla da quasi due anni. Ce l'hanno con me, che quei 1500 marchi, Ein tausend funf hundert "doiemàrk", li tenevo in serbo da anni per potermi pagare una vacanza e una cena, una sola, sul mare... Ieri pomeriggio sono andata verso l'altro albergo, solo perché il bar era più vicino, e ci sono state vecchie che nella hall mi hanno sussurrato: "Brutta puttana..."». Adesso, dovete sapere che l'hotel Meteor ha quattro saloni, 300 camere, un'ampia zona adibita a residence e un'ampia spiaggia ombreggiata. Esattamente come il Park Hotel. Che l'albergo a quattro stelle Meteor ed il quattro stelle Park sono pieni di belle ragazze in costume che fingono di coprirsi quando attraversano la hall e fendono sicure l'improvviso accendersi di sguardi, accompagnate da uomini con l'aria stolida di tutti gli uomini quando le loro donne fanno accendere gli sguardi attraversando semisvestite le hall. Insomma, l'albergo Meteor e l'albergo Park ospitano identiche tribù di uomini che americaneggiano sotto berrettini a visiera, identiche falangi di donne in costumi e pareo, entrambi si completano con filari di massaie e anziani in canottiera che vegetano allineati lungo le pareti. Avrete intuito come il Meteor ed il Park Hotel siano assolutamente identici, anche perché costruiti alla fine degli Anni Settanta nella medesima pineta, dai medesimi architetti e nell'ambito del medesimo progetto paleocapitalista dell'allora confederata Repubblica di Jugoslavia. Un albergo è copia dell'altro nelle strutture, nei corridoi, negli arredi, perfino nel colore delle mattonelle dei bagni. Cambia solo la gente, nonostante si vesta e si muova e parli nell'identico modo. Qui ci sono quelli che i «doiemàrk» li sognano, là quelli che li spendono. E così difficile interpretare la corrente d'odio che attraversa la pineta? Qui ha vinto la saturazione. Non avevo mai visto luogo che dimostri fino a che punto la Bosnia abbia smesso di esportare dolore, finendo con l'arrendersi a un Occidente che intanto ha allargato fin sulle coste dalmate i confini delle sue regole. Senada si alza, arrotola il telo di spugna intorno al costume nero e se ne va verso l'hotel Meteor. Ljiljiana si alza, copre il costume nero e si avvia al ristorante del Park Hotel. Da questo limbo dove ogni valutazione è rinviata, qualsiasi emozione sospesa, stasera un vecchio pullman «Icarus» partirà per riportare a Sarajevo chi ha potuto permettersi una vacanza dalla vita. Ai margini della pineta, quasi nello stesso momento, qualche giovanissima profuga tenterà di procurarsi i primi «doiemàrk». Giuseppe Zaccaria «Vivo qui in questo albergo da 18 mesi e non posso muovermi: non ho una lira» «Da quattro anni sognavo questi giorni di mare e i rifugiati mi insultano» Turisti bosniaci Una corsa per evitare i cecchini e camion fermi sul confine

Persone citate: Gargano, Senada Fehimovic, Sidran