E la proprietà non è (più) un furto

O E la proprietà non è (più) un furto 7/ messaggio del Cavaliere agli italiani: arricchitevi BERLUSCONI E IL GRANDE TABU' ELLO show politico di Berlusconi c'è un passaggio in cui l'attore abbandona il copione, sveste i panni curiali del presidente del Consiglio e recita se stesso con naturalezza. E' l'inno alla proprietà privata nella parte del discorso che concerne il suo passato d'imprenditore. Quando Berlusconi, gli occhi fissi sull'opposizione progressista, dichiara che «la libertà d'impresa e di lavoro (...) non si tocca perché la Costituzione non consente a nessuno di espropriare o collettivizzare la proprietà privata», il tono è franco, accattivante. Berlusconi non si limita a enunciare un principio. Dietro le sue parole si legge in trasparenza l'esortazione di Guizot ai francesi negli anni (1840-1848) in cui fu primo ministro di Luigi Filippo. Il messaggio, oggi come allora, è: «arricchitevi». E' un messaggio coraggioso. La proprietà è stata per troppo tempo in Italia un tema generalmente impopolare. Quasi tutte le forze politiche nazionali, dal fascismo alla democrazia cristiana, l'hanno considerata con sospetto, forse nella segreta convinzione che la lapidaria affermazione di Proudhon («la proprietà è un furto») contenesse una parte di verità. Ugo Spirito, allora filosofo fascista, sostenne nel 1932 la tesi della «corporazione proprietaria». Fanfani insegnò economia corporativa all'Università Cattolica negli anni in cui gli intellettuali cattolici del gruppo di Camaldoli parlavano di solidarismo e del ruolo dello Stato nell'economia nazionale. L'articolo 41 della Costituzione dichiara che l'iniziativa economica privata è libera, ma si affretta ad aggiungere che «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». L'articolo 42 afferma che «la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge», ma precisa che essa «ne determina i modi di ac- quisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Col passare del tempo i limiti sono diventati sempre più numerosi e il diritto di proprietà è finito dietro una fitta coltre di balzelli, licenze, autorizzazioni, vincoli, servitù pubbliche. Le uniche forme di proprietà e d'impresa per cui le forze politiche italiane nutrono una evidente simpatia sono la casa popolare, il fondo del coltivatore diretto, la cooperativa e l'artigianato. Quanti Paesi dedicano alla cooperazione un intero articolo della loro Costituzione? La nostra dichiara solennemente all'articolo 45 che «la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata». Come nell'Unione Sovietica di Gorbaciov l'impresa ideale, per molti uomini politici italiani, è la cooperativa, vale a dire quella in cui i proprietari sono tutti, nessuno c molto spesso, dietro le quinte, il partito-padrone. La realtà naturalmente è alquanto diversa. A dispetto del puritanesimo illiberale di tanta parte della sua classe politica, l'Italia resta un Paese di feudi, grandi proprietà dinastiche, abusi edilizi, padroni delle ferriere e «mani sulle città». Questi due aspetti - rigore e abitrio - sono i volti complementari di una stessa medaglia. Quando Weber descrive l'etica del capitalismo e Sombart ritrae il borghese della rivoluzione industriale non parla di noi. Patria dei tedeschi, degli olandesi, degli inglesi, vale a dire dei popoli che sono stati attraversati dai grandi fremiti in¬ tellettuali della Riforma protestante. Noi preferiamo, controriformisticamente, peccare e pentirci, fare voto di solidarietà e aggirare le leggi, arricchirci e nasconderlo al fisco, parlare e agire in modi diametralmente opposti. Non è stato sempre così. Nel Duecento siamo stati all'avanguardia dell'Europa intrapren¬ dente e ci siamo follemente lanciati con essa, come scrive Jacques Le Goff in un saggio pubblicato da Laterza, «verso il profitto, verso la ricchezza, soprattutto la ricchezza monetaria». Nel Quattrocento avevamo banchieri che prestavano denaro ai re e finanziavano la scoperta dell'America. Nell'Ottocento abbiamo cercato di recuperare il tempo perduto. Anche nell'albero genealogico dell'Italia unitaria vi sono imprendilo) i di stampo vittoriano, «barrni cai denti d'acciaio» e «liric. della moneta», come Croce definì i grandi industriali e finanzieri ebrei della fine del secolo. Oggi, uall'aula di Montecitorio, il primo presidente imprenditore della storia d'Italia proclama l'avvento della rivoluzione imprenditoriale e liberista. Finisce l'epoca del controriformismo ipocrita e untuoso, comincia quella in cui arricchirsi è lecito e raccomandato. Tutti gli italiani che credono al valore etico del lavoro e del denaro ne saranno soddisfatti. Ne sarebbero ancora più soddisfatti probabilmente se i temi della proprietà e dell'impresa non fossero stati evocati da Berlusconi contro coloro che contestano la sua pretesa di essere contemporaneamente presidente del Consiglio e proprietario di un grande gruppo economico. Berlusconi sembra dimenticare che non tutti i vincoli e i limiti hanno lo stesso valore. Vi sono quelli che sacrificano il diritto d'impresa sull'altare della socialità impedendogli di espandersi e di creare; e vi sono quelli che fissano le regole della partita per evitare che il giocatore diventi arbitro di se stesso. Non sono limiti illiberali, tanto per intenderci, quelli che disciplinano la pubblicità dei bilanci, la trasparenza dei rapporti societari, le scalate, le offerte pubbliche d'acquisto e la libera concorrenza. Non sono illiberali le leggi che in America, negli Anni Cinquanta e Sessanta, smantellarono i grandi oligopoli petroliferi. E non è illiberale la speranza di un presidente del Consiglio che non sia costretto a impiegare metà delle sue giornate per difendersi, a torto o ragione, dall'accusa d'interesse privato in atti di ufficio. Non conti Berlusconi, in questa faccenda, sul sostegno della Destra liberale. E' con lui quando parla, è contro di lui quando non si conforma alle proprie parole. Sergio Romano Torna la parola d'ordine di Guizot dopo decenni di mortificazione. Dal fascismo alla de, i partiti hanno guardato con sospetto l'iniziativa privata Berlusconi riceve le congratulazioni dai ministri dopo il discorso In alto, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro Il filosofo Proudhon

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