Gli ozi dell'Armata Rossa

Gli ozi dell'Armata Rossa Gli ozi dell'Armata Rossa Necessità tattica o calcolo politico? IL RITARDO DI STALIN LM INSURREZIONE di Varsavia, divampata nell'agosto '44 e sanguinosamente fallita, è uno dei grandi enigmi della seconda guerra mondiale sul quale solo oggi, mezzo secolo dopo, gettano un po' di luce i documenti pubblicati a Washington - compreso un rivelatore telegramma di Stalin a Roosevelt - e l'ultimo dei centonove libri sull'argomento, l'edizione più recente di Warsaw Uprising dello storico polacco Zenon Kliszko. In quella caldissima estate di cinquantanni fa le armate sovietiche di Rokossovskij avanzavano a tutta velocità verso Ovest attraverso le sterminate pianure dell'Ucraina e della Polonia; dal 23 giugno al 21 luglio avevano coperto 748 chilometri e, ricorderà Churchill, «i tedeschi non facevano che scappare davanti ai russi» tanto che secondo Mikolajczyk, all'epoca capo del governo polacco in esilio a Londra, il 30 luglio Molotov, Commissario sovietico agli Esteri, gli aveva pronosticato che «conquisteremo presto Varsavia; siamo a sole sei miglia dalla città». Due giorni dopo, il 1° agosto, una punta corazzata di Rokossovskij, proveniente da SudEst, raggiunse Praga, il sobbor.go più orientale della capitale polacca, e tuttavia, la notte del 3 agosto, Stalin fece un passo indietro: «Speravamo di prendere Varsavia il 5 o il 6 - disse a Mikalajczyk - ma i tedeschi si stanno difendendo molto più accanitamente di quanto ci attendessimo. Ci sarà un breve ritardo nell'occupazione della città». Il «breve ritardo» fu in realtà così lungo che la battaglia dell'insurrezione sarebbe durata 63 giorni, fino al 2 ottobre, e i tedeschi l'avrebbero domata con un bagno di sangue che vide la morte di 250.000 polacchi, la distruzione dell'esercito nazionale clandestino e il massacro di quasi 40.000 civili. Perché una tragedia di così vaste proporzioni? Innanzitutto un fatto politico fondamentale e cioè che, nel 1944, le Polonie erano due: una appena creata a Lublino dai sovietici vittoriosi e che in effetti rappresentava il primo nucleo dello Stato-fantoccio comunista, e quella del governo legittimo di Mikolajczyk, rifugiato a Londra fin dal 1939 e che in Polonia aveva organizzato clandestinamente un esercito, l'«Armjia Krajowa», «Armata popolare». Churchill, grande «patron» del governo polacco in esilio ma profondamente preoccupato delle conseguenze di una eventuale rottura fra russi e angloamericani sul problema dello «status» della Polonia, esercitava forti pressioni su Mikolajczyk affinché stabilisse un rapporto di convivenza con l'altro governo, quello di ispirazione sovietica. Ogni possibilità di accordo, però, saltò non appena quell'offensiva portò Rokossovskij, in pochissimi giorni, davanti ai ponti sulla Vistola. Immediatamente, infatti, l'«Ar- mjia Krajowa», comandata dal colonnello Taddeusz Komorovski, 49 anni, nome di battaglia «Bor» (foresta), colse l'occasione di dimostrare al mondo, specialmente sovietico, il proprio peso militare e politico e fece insorgere Varsavia in modo che la capitale venisse liberata da una rivolta popolare e non dalle baionette di Stalin. Alle 17 del 1° agosto - come narrerà Komorovski nelle sue memorie inedite in Italia - divampò l'insurrezione e mezz'ora dopo, sul più alto edificio di Varsavia, il «Prudential», di sedici piani, sventolò la bandiera rossa e bianca della Polonia: non accadeva dall'ottobre del 1939. Ma, senza un preventivo accordo con i sovietici e quindi senza il loro appoggio, fu una mossa sbagliata; con 40.000 partigiani, compresi donne e ragazzi, e viveri e munizioni per non più di dieci giorni, r«Armjia Krajowa» dovette affrontare da sola la guarnigione tedesca del generale Reiner Stahel ch'era numericamente inferiore (poco più di 12.000 uomini) ma disponeva dei mezzi di cui invece gli insorti erano sprovvisti, cannoni, carri armati, aerei. Purtroppo, la situazione peggiorò subito perché, contrattaccato a Wolomin da due divisioni corazzate tedesche, la 4a e la 5a, dai paracadutisti della «Her¬ mann Goering» e dalla divisione-SS «Viking», Rokossovskij prima rallentò la sua impetuosa offensiva, poi l'arrestò. Rimase fermo due mesi e gli insorti di Varsavia, nel frattempo, furono fatti a pezzi dalla reazione tedesca con una lunga serie di orrori (i civili legati come scudi umani alle torrette dei «panzer», i 170 ricoverati dell'ospedale «Marie Curie» portati nei giardini «Mokotov», spogliati e uccisi, i 782 giovani trucidati nei cortili della fabbrica «Ursus»): invano Mikolajczyk, negli incontri con Stalin e nei disperati messaggi radio a Londra, invocherà sia una ripresa dell'offensiva sulla Vistola, sia l'invio di munizioni e di armi anticarro. Il dilemma che dura da cinquantanni - se i sovietici, deliberatamente, lasciarono fallire l'insurrezione - si inquadra nelle tormentate vicende della Polonia, dall'invasione dei nazisti e dei russi che nel 1939 se la spartirono, alle tragedie dell'occupazione (l'annientamento della classe intellettuale, il genocidio del ghetto di Varsavia, la strage degli ufficiali polacchi a Katyn) alle grandi manovre del Cremlino per la «comunistizzazione» del Paese. Non per nulla il «Comitato di Lublinc», appena insediato da Stalin il 24 luglio '44, denunciò in un manifesto gli «usurpatori» di Londra e annunciò il ritorno alla Costituzione del '21, di ispirazione leninista, annullando quella che Pilsudski aveva fatto proclamare nel 1935 e sulla cui base era costituito il governo in esilio. E' vero che né i sovietici né gli anglo-americani erano stati informati preventivamente dell'imminenza della rivolta; è vero che Bor-Komorovski, con la chiara intenzione di forzare la mano a Stalin, si era mosso non appena i russi erano giunti a una decina di chilometri dalla capitale (e il 22 agosto, in un telegramma a Roosevelt, Stalin protesterà: «Presto o tardi verrà alla luce la verità su quel pugno di criminali assetati di potere che hanno scatenato l'avventura di Varsavia»), è vero che anche i tedeschi si rendevano conto dell'importanza strategica dei ponti sulla Vistola tanto che per fermare Rokossovskij avevano fatto accorrere dall'Italia i celebri paracadutisti della «Goering», è vero che i russi non sapevano come fare a comunicare con i comandi di «Bor» (e questi, nelle memorie, lo ammette), è vero infine che le linee logistiche dell'Armata Rossa si erano tanto allungate che una Varsavia ben difesa poteva tenere in scacco qualsiasi slancio offensivo. Ma è anche vero che i sovietici non mandarono nessun rinforzo agli insorti, non impiegarono contro i tedeschi a Varsavia un solo aereo da bombardamento, non mossero insomma un dito e impedirono anche, con speciosi pretesti, che intervenisse l'aviazione alleata, e lasciarono così che si consumasse l'olocausto di una città, di un esercito, di una popolazione. Certamente Stalin voleva risolvere a modo suo e a beneficio esclusivo dell'Urss il futuro della Polonia che stava risorgendo dalle rovine della guerra, ma la lettera che a metà dell'agosto '44 scrisse a Churchill e in cui diceva cinicamente che «il Comando sovietico è giunto alla conclusione che deve disinteressarsi dell'avventura di Varsavia perché non può assumere la responsabilità, diretta o indiretta, di quest'azione», non gli sarà perdonata facilmente dalla Storia. Giuseppe Mayda In 2 mesi di atrocità i nazisti repressero l'insurrezione. Allora i russi si mossero Un ragazzino polacco posa un fiore al monumento per i bambini che fecero da messaggeri per le truppe dell'insurrezione e morirono a migliaia sotto il fuoco tedesco Qui a sinistra, altre due scene della battaglia di Varsavia