Fiamme Gialle, autocombustione

Fiamme Gialle, autocombustione Dalle truffe di GiufiBrè al caso del generale Giudice. Ma non mancano le «pecore bianche» Fiamme Gialle, autocombustione Dai petroli alla P2, annali di scandali per il Corpo SESSANTAMI LA MILITARI NELLA BUFERA EC recisa recedit», non indietreggia neanche se stroncata, dettò bronzeo Gabriele D'Annunzio per quel reparto che a Fiume, pur reciso dalla Madrepatria, non recedette dall'impegno di difenderla. Oggi, nel giorno della mota, sarebbe ingeneroso e ingiusto maramaldeggiare sull'impegnativo motto latino che campeggia nello stemma araldico della Guardia di Finanza. E sarebbe, tutto sommato, uii operazione corriva allineare in bell'ordine gli scandali che nell'Italia repubblicana hanno visto lampeggiare le Fiamme Gialle: da Giuffrè ai tabacchi, da Sindona all'Italcasse, dal primo scandalo dei petroli al più raffinato petroli-2, dalle intercettazioni telefoniche al caso presente - che Marco Pannella cataloga come racket di Stato -, il tutto in un intreccio senza respiro con i peggiori recessi della politica. Paradossi della storia: «Noi non siamo mai stati legati a carri politici, altrimenti qualcuno ci sarebbe venuto in soccorso», è sbottato ieri il generale Costantino Berlenghi, comandante generale della Guardia di Finanza. La dichiarazione non è propriamente da capo militare e, se vogliamo, almeno per molte delle gestioni precedenti, è proprio il contrario della verità; ma il professor Franco Gallo, che fino a qualche mese fa, nel governo Ciampi, ha tenuto il ministero delle Finanze, ci garantisce personalmente la sua stima - peraltro ampiamente condivisa in molti ambienti - per Berlenghi, un ufficiale onesto e serio; e il professor Sabino Cassese, ex ministro della Funzione Pubblica, riferisce degli attestati di stima che ha ascoltato circa il vice, il generale Maccariello. E allora, per rispetto a questi ufficiali e alla maggioranza onesta dei 65 mila finanzieri feriti nell'onore, per non condannarli alla trita litania della pecora nera (che ormai è un gregge nero in una prateria sconfinata) ci piacerebbe spiegarvi che cosa sono le Fiamme Gialle non attraverso le pecore nere, ma attraverso le pecore bianche. Perché - di questo, sì, va dato atto - non c'è scandalo della recente storia italiana in cui, a fianco dei militari corrotti, non compaia qualche collega accusatore implacabile. Perché il Corpo è stato sempre percorso da feroci lotte intestine, diviso in cordate, se non in bande, dicono i più cinici. Ma no, replica invece il professor Fabrizio Battistelli, che ha studiato i Corpi armati dello Stato, forse perché è un Corpo molto elitario come i carabinieri, dove c'è anche tanta gente motivata. Per carenza delle fonti storiche, diciamolo subito, non ci è facile trovare un eroe buono tra i finanzieri dello scandalo Giuffrè, anche se sicuramente c'è. Correvano gli ultimi Anni Cinquanta, si era nel clima dello scandalo Montesi, e il commendator Giambattista Giuffrè, un piccolo Sindona ante litteram, si mise a raccogliere illegalmente pubblico risparmio, con la connivenza di una parte della de, che egli finanziava. Si disse che lo scandalo era utile a Fanfani, perché metteva in crisi Andreotti, suo concorrente nell'eredità politica di De Gasperi; lo stesso Andreotti, anni dopo, scrisse un memoriale zeppo di denunce di ricatti e di gesta di servizi segreti. Il coperchio lo tolse comunque Luigi Preti, ministro socialdemocratico che, a dispetto della sua faccia da macchietta (ricordate Totò ne «I Tartassati»?), gestiva bene le cose e si avvaleva per tutti i servizi del generale della Finanza Domingo Fornara: una volta mandò la Finanza addirittura all'arbitro Concetto Lo Bello colpevole, a suo avviso, di aver arbitrato indegnamente una partita di calcio. Fatto sta che qualche anno dopo troveremo il generale Fornara felice presidente della Sarom, la società petrolifera di Attilio Monti, altro amico di Preti, coinvolta nel primo scandalo dei petroli. Scusate, ma a questo punto ci vuole una piccola parentesi, doverosa, per tornare al professor Battistelli: Corpo elitario, ben addestrato e super-riservato, ci ha detto. Chi c'è allora di meglio che gli ex ufficiali della Finanza per contrastare la Finanza stessa? Così le imprese - con una prevalenza di quelle a Partecipazione statale - hanno assunto a prezzi d'affezione finanzieri (e carabinieri) a centinaia negli ultimi anni, in un Paese in cui sembra - scusate il condizionale, ma siamo abbastanza sicuri - che persino il Corpo, in una delle tante recenti occasioni, sia stato costretto ad avvalersi del condono fiscale. Avere ex ufficiali della Finanza o dei carabinieri presidenti o, comunque, nel management aziendale era diventata quasi una dichiarazione di status: guarda che a noi non ci tocca nessuno. Alla ricerca delle pecore bianche tralasceremo il colonnello Giovanni Vissicchio, che arrestò Luciano Liggio e che si distinse negli anni successivi nella denuncia degli scandali interni, per riportarvi qualche graffito Anni Settanta quando il celebre pretore Infelisi (che fine ha fatto?), quello che voleva sbattere in galera Paolo Baffi, scoprì che l'Ufficio-I della Guardia di Finanza spiava un po' tutti con intercettazioni telefoniche. Che fine ha fatto l'Ufficio-I? Lo chiediamo ingenuamente al generale Luigi Ramponi, ex comandante generale della Guardia di Finanza ed ex capo del Sismi, oggi senatore un po' incazzato di Alleanza nazionale, che ci risponde deciso, ma un po' sibillino: «C'è, c'è... Soltanto che dopo lo scandalo dei petroli gli cambiarono nome, per la verità con non grande fantasia; tipo: quarta compagnia, invece che seconda, o qualcosa del genere. Poi, passato lo scandalo, tornò seconda». Lo scandalo dei petroli-2, 2500 miliardi o giù di lì rubati allo Stato: quello sì è uno scandalo che un eroe positivo ce l'ha. Si chiama Aldo Vitali, ha bruciato la carriera e ha rischiato la vita. Se la prese con Raffaele Giudice, comandante generale della Guardia di Finanza che, con il suo vice Donato Loprete, aveva organizzato una truffa ai danni dello Stato senza precedenti. Le guardie erano diventate i la¬ dri, quando le comandò quell'oscuro bersagliere proveniente dal Comiliter di Palermo, segnalato a Giulio Andreotti da Salvo Lima, buonanima, e dal pio cardinal Poletti, Vicario di Roma. Fu il tripudio: ufficiali della Guardia di Finanza che dalla sera alla mattina si trasformavano in petrolieri miliardari, lussi sardapanaleschi, procure della Repubblica asservite, politici all'ordine del loro colonnello di Finanza. Guido Carenza, Andrea Iannone, Renato Mancusi, Gennaro Manzo: temiamo che questi nomi non dovrete inserirli nel taccuino delle guardie, visto che - a stare alle cronache dell'epoca - col generale Loprete e gli affaristi della P2 spogliavano l'Italia. Ma possiamo segnalarvi anche, ad imperitura memoria, la pecora bianca: si chiama Giuliano Oliva e nel 1974, durante un'udienza pontificia (chissà se presenziava il cardinal Poletti), dette quasi in escandescenze, segnalando ad alta voce la corruzione «inimmaginabile» che percorreva la Guardia di Finanza. Trasferito a Roma, fu ricevuto da Franco Evangelisti, buonanima: «Dovete allontanare il comandante Giudice, sta combinando cose molto sporche», gli disse. «Andreotti non ci pensa per niente», gli rispose gelido il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Del resto, Andreotti complimentava allora come salvatore della lira quello stesso Sindona che oggi il professor Victor Ukmar pone alle origini della corruzione della Finanza: dammi dieci - diceva da fiscalista ai clienti - e io ti faccio risparmiare cento. Dosi, Spaccamonti, Floriani, quanti sono i buoni finanzieri che ci consegnano la cronaca e la storia? Tanti. E quanti quelli morti, magari in singolari incidenti d'auto o per suicidio, come il tenente colonnello Luciano Rossi, il quale, dopo aver testimoniato sulla Loggia P2, fu trovato morto suicida? Si rubavano 2500 miliardi sui petroli, ma l'obbiettivo, oltre alla ricchezza, era il Potere. Per questo entra in guerra negli Anni Settanta il generale Giudice, una delle figure più tragicamente emblematiche della Prima Repubblica. Cossiga, ministro dell'Interno, si lascia scappare che bisogna «ruralizzare» i carabinieri, cioè relegarli nei piccoli centri. A favore di chi? Della Guardia di Finanza naturalmente, ne ricava il generale, che entra in un trip incontrollabile, che vuole creare la grande polizia privata della de, facendo fuori per sempre i carabinieri. Guardate un po' com'è la storia dei buoni e dei cattivi, in un Paese in cui ogni alito della politica ha prodotto sfracelli. «Un corpo che è stato al centro di uno scandalo come quello dei petroli», dice a un certo punto il radicale Mauro Melimi, «in un altro Paese sarebbe stato immediatamente sciolto». E invece? Invece, aumentano i poteri della Guardia di Finanza e cresce il meccanismo di corruzione endemico, come lo chiama dalla sua serena vacanza londinese l'ex ministro delle Finanze Franco Gallo. Una bella scoperta? Ma figurarsi. All'inizio degli Anni Ottanta già la denunciava Giuseppe D'Alema, padre dell'attuale segretario del pds, e il giurista Stefano Rodotà azzardava: «Si intensificano le voci secondo cui in talune aree del Paese l'azione della Guardia di Finanza finisce per essere un'azione personale dei suoi ufficiali e sottufficiali, che utilizzano le ispezioni nelle aziende per negoziare vantaggi. Se un numero sempre maggiore di piccoli e medi imprenditori va in giro a dire che le ispezioni sono strumento di pressione, non è un caso, è sicuramente un fatto allarmante». Il generale Ramponi, oggi senatore di An, ci ha raccontato a taccuino, autorizzandoci a riferirlo: «Nel 1991 ero Comandante generale della Guardia di Finanza. Stavo lavorando al sistema di controllo del riciclaggio di denaro sporco. Avevo formulato una proposta, avendo individuato nel controllo dell'immissione di contante nei circuiti finanziari il punto più vulnerabile. Ne derivò la legislazione sul controllo dei movimenti bancari superiori ai 20 milioni. Occorreva istituire un cervellone elettronico per incrociare le informazioni provenienti dal sistema bancario. Costo d'impianto 30 miliardi e di gestione 5 miliardi l'anno. Invece, mi chiesero di andare a dirigere il Sismi e di qui mi cacciarono dopo pochi mesi». Sarà per questo che oggi il senatore Ramponi è così irritato? Forse sì, magari perché non riesce a figurare come meriterebbe nella galleria degli eroi della Guardia di Finanza, che abbiamo promesso all'attuale comandante generale Berlenghi, ma che, con tutta la buona volontà, non siamo riusciti a stilare in modo completo. Ci vien quasi da dire con D'Annunzio: Nec recisa recedit. Alberto Staterà Berlenghi difende i suoi uomini «La verità è che non siamo legati a nessun carro politico» Boom dei finanzieri consulenti d'azienda assunti a centinaia per «gestire» il fìsco A destra, Michele Sindona e l'ex ministro delle Finanze Franco Gallo Sotto, Fiamme gialle in azione A sin. il generale Giudice e il suo vice Loprete (primo e terzo da sinistra). Sopra, Luigi Ramponi

Luoghi citati: Fiume, Italia, Roma