Sonic Youth nuovi ribelli sfidano i vecchi Stones

tuttolibri Sonic Youth nuovi ribelli sfidano i vecchi Stones ONOSTANTE i mille strilli e le altrettante etichette in cui si divide, il rock stenta da anni a reinventarsi, a eleggere un nuovo re. Forse un re non verrà più, forse è meglio l'attuale repubblica, con un vorticoso susseguirsi di leader forti dei consensi del pubblico attraverso le classifiche di vendita. In questo momento ci sono due pretendenti allo scranno più alto. Ci sono i Rolling Stones, con un disco dalle numerose novità, e i newyorkesi Sonic Youth, con la loro ricerca sonora tra rumore e spunti d'avanguardia. Uno scontro che vede fronteggiarsi due epoche del ribellismo rock, quella classica che fa riferimento alle radici nere del rock e l'altra emblema delle nuove generazioni, con forme minimaliste e aspre provocazioni. Ed anche curioso che se gli Stones hanno riferimenti neroamericani, i «Giovanotti Sonici» dalla Grande Mela guardano in parte al rock tedesco. Dal 1972 i Rolling Stones ci hanno offerto un rituale sempre uguale, con pedaggi fissi in stazioni di pietra: canzoni con tre accordi ad imitazione di «Brown sugar» («Start me up», «Dirty work», «She's so cold»), la ballata mielosa specchio di «Wild horses» («Angie», «Waiting on a friend»), il blues minimalista («Black limousine»), la ripresa elaborata («Harlem, Shuffle», «Just my imagination»). Ed echi sempre più lontani. Ora invece Voodoo lounge (Virgin, 1 Cd) rompe il rituale. Anche grazie al produttore Don Was, che dimostra ancora una volta (dopo Dylan, Bonie Rait.t, Khaled) che sa portare i suoi pupilli verso progetti chiari. Ascoltando i 15 brani di «Voodoo lounge» ci si accorge che l'amor proprio ha spinto gli Stones a evitare il ridicolo. Così con le prime due canzoni («Love is strong», «You got me rocking») sono molto meno prevedibili, anche se si risentono le chitarre grasse e parole un po' imbecilli. Quindi le vere sorprese. Dal rock rapido di «Sparks will fly», con una melodia deliziosamente volgare, alla lugubre ballata «The worst», dove Richards ritrova l'ispirazione e quel suo canto negligente e fascinoso (si ripete nella bella «Thru and thru»). Poi c'è «New faces», ritorno alla ballata celtica (tipo «Lady Jane», Ruby Tuesday») con clavicembalo e chitarra acustica; «Moon is up» con arrangiamento originale (chitarra sottoamplificata e percussione non identificabile); il gospel agnostico «Blinded by rainbows». Un gran disco, intelligente, corposo, ricco di curiosità. Che si sente suonato come in concerto. Un disco che segna anche la prima volta senza il bassista Bill Wyman. Sostituito più che degnamente dall'eccellente Daryl Jones (quello di Miles JBlll ' I degn I Dary Davis). La differenza c'è, e gli Stones non rimpiangono la perdita. Se sul piano musicale è un ottimo ritorno sugli altari, difettano i testi. Niente innovazioni. C'è lui che pensa di conquistare lei («Sweethearts together»), che pensa di lasciarla («Out of tears») e poi pensa di riprenderla («Sparks will fly»). Una cosa per volta. Oggi gli Stones sono tornati e ci fanno divertire. Poi in fondo non erano loro che cantavano «E' solo rock'n'roll»?. Se il rumore è oggi una delle figure tra le più usate dal rock, lo si deve in parte ai Sonic Youth. Miscelando, agli inizi degli Anni 80, energia punk ed esplorazioni atonali, il quartetto newyorkese a ispirato una lunga serie di seguaci. Gli eredi sono stati velocemente catalogati come «noisy» e «giunge», infarciti di emozioni prepuberali e sovente rattrappiti su banalità rock. Salvati dal loro gusto per l'inconsueto musicale, i «giovanotti sonici» sono comunque invecchiati bene. E il contratto con la Geffen non ha intaccato la loro indipendenza. «Goo» e «Dirty» sono stati i due ultimi album del gruppo formato da Kim Gordon, Thurston Moore, Lee Ranaldo e Steve Shelley. I due dishi avevano andature concentriche, muscolose, in sintonia con i titoli delle canzoni. Rimasta intatta quindi la capacità di creare il pericolo. Nuova dimostrazione dell'avventurismo del gruppo è Experimental Jet Set, Trash and no star (Geffen 1 Cd), disco dal titolo davvero enigmatico. Avendo facilità nel creare il chiasso, i Sonic Youth hanno scelto un'economia di mezzi che esalta le atmosfere aspre e concise. Alcune parti a volte instabili e rettilinee (la battuta metronomica del batterista Steve Shelley) privilegiano i tempi medi, tali da consentire a Kim e Thurston di far scivolare testi di una sensualità torbida. Le tensione a volte esplode in bolle elettriche («Screaming Skull», «Androgynous mind»), ma più sovente si muove sinuosa tra le costruzioni fatte di collages e ripetizioni, nemici apparenti delle forme melodiche. Un'opera che esprime una bellezza urbana, notturna e misteriosamente ostinata. Quella di un rock sempre giocato nella diversità. Alessandro Rosa >sa^J