Amarcord di ragazzi «diventati famosi» di Marco NeirottiLuca Doninelli

Amarcord di ragazzi «diventati famosi» as anni dopo Da Salvatores ad Alboreto, dalla Venier alla Spaak, racconti di stupore e disincanto Amarcord di ragazzi «diventati famosi» infantile, ragazzi, MERAVIGLIA stupore di emozioni contrastanti di giovani impegnati politicamente. La sera del 20 luglio 1969 trascorsa davanti al televisore riassume una varietà di sentimenti nel ricordo di venticinque anni dopo. Aveva 19 anni il regista Gabriele Salvatores: «Si parlava di Vietnam, di imperialismo americano, e io ero colpito nel vedere la bandiera degli Stati Uniti anche sulla Luna». Spettatore più «politico» che affascinato? «Sullo spazio si vedevano in atto speculazioni a volte non solamente scientifiche, c'era la lotta con i sovietici. Certo, mi affascinavano e insieme mi terrorizzavano le voci che venivano di là. Ricordo una canzone di David Bowie: raccontava di uno che perde il contatto, è destinato a vagare. Oggi mi rendo conto che c'erano significati scientifici che a me sono sfuggiti. Ma ci sono ancora una bandiera e delle impronte. Mi viene da pensare a un grosso spot pubblicitario». Aveva 14 anni scarsi e una reazione ancor più dura Silver, il papà di Lupo Alberto: «Ero politicizzato come lo si poteva essere a quell'età e non ho assistito allo sbarco, l'ho ignorato come forma di protesta contro la colonizzazione culturale da parte degli americani. Devo dire che avevo la consapevolezza che la mia ora una fesseria, però mi faceva sentire militante, in pace con me stesso. Poi in qualche modo ho cercato di recuperare quel momento che mi ero perso». Con quale effetto? «La cosa mi ha anche deluso, non per fare il romantico a tutti i costi, ma in fin dei conti il pensiero di quel sasso polvero¬ so che ci gira intorno, il fatto di essere andati a mettereci un piede sopra...: ci si aspettava che spuntassero fuori gli alieni. E poi ci si aspettava che fosse veramente una svolta per l'umanità. Invece non è cambiato niente. Un'impresa che ha entusiasmato i patiti della tecnologia, come ero anch'io da patito lettore di fantascienza». Diciassette anni aveva Mara Venier: «Ero arrivata a Roma da Venezia, mamma da poco. Ricordo Stagno come fosse ieri, penso che insieme agli astro¬ nauti era diventato un minieroe anche lui. Mia figlia piangeva e io guardavo lo sbarco a rate, tra una pappa e le urla da calmare. Tra me e me pensavo: io guardo questo evento oggi sensazionale, ma quando mia figlia avrà vent'anni tutto sarà ridimensionato, lei ci farà il viaggio di nozze sulla Luna». Non è andata così: «E non è un male: da un lato c'è sì l'importanza dell'avanzata tecnologica, che ci porta a colmare le nostre curiosità, forse anche il desiderio di avventura, di sbarca¬ re anche noi paurosi (io ho paura anche dell'aereo), ma è giusto lasciare anche un po' di mistero: mi dispiacerebbe vedere che mia figlia va sulla Luna in luna di miele, magari con il viaggio offerto dal mobilificio dove ha comperato l'arredamento». Aveva 19 anni Michele Mozzoni, uno degli autori delle Formiche: «Ero in un campo di lavoro, in Danimarca, nella punta estrema dello Jutland, che per noi rappresentava l'estremo Nord delle socialdomocra- zie. Ero innamorato come una bestia di una biondissima danese e guardavo lo sbarco con lei. Era una grande emozione. Perdevo il romanticismo del luogo raggiunto dal satellite, però acquistavo quello di una conquista possibile e del tutto mia. Molti ricordano Tito Stagno, io vedendo una televisione danese me lo sono perso, e questo è un vantaggio». A ripensarci ora? «Era uno dei primi grandi esperimenti di coinvolgimento: usciamo ora dai mondiali e ci rendiamo conto di quanto un avvenimento giocato dal potere mondiale possa distrarre la gente e accomunarla su obiettivi forse fuorviami. Certo, la conquista della Luna si sminuisce di fronte al fatto di dover riconquistare la Terra. Siamo riusciti a mandare gente lassù e la Luna ci sembra più vicina, ma intanto abbiamo perso la Terra, e persa davvero. Tant'è che in venticinque anni è la prima volta in cui ci penso, per via di questa telefonata». Aveva 24 anni Catherine Spaak e ricorda tecnologia a contrasto con il buon senso popolare: «Stavo girando un film a Roma e, quando potevo, andavo a Torvaianica, a trovare mia figlia che era in vacanza con la nonna. Ricordo lo sbarco visto nel televisore di un albergo tranquillo, con quell'atmo¬ sfera da mamme, nonne e figli, per niente mondano. Ma si dà il caso che io soffra di un'allergia particolare alle punture delle api, con reazioni sproporzionate, roba da rischiare una tracheotomia. E fui punta da un'ape. Si diceva che il rimedio fosse succhiarsi la parte colpita e sputare. Peccato però che fossi stata punta sul collo». E, allergia permettendo, che cosa ricorda? «Le cose che più mi colpirono furono il simbolo dell'orma e l'allegria che veniva da quel saltarellare. E poi una frase: "Colori che non ci sono sulla Terra". Forse non erano colori, ma vibrazioni». Tredici anni aveva Gene Gnocchi: «La cosa che mi lasciava stupito era come mai questi qui scendessero e non cominciassero qualche attività, come mettere su un chiosco di bibite. Continuavano a raccogliere e non impiantavano niente». E che cosa pensa oggi? «Questo sbarco effimero conferma la tesi dell'errore di presunzione della conoscenza totale, e nello stesso tempo sancisce che la vita dell'uomo è una ricerca, legittima nella sua assoluta fragilità. Un altro errore che si aggiunge alla catena, finiti gli errori finito tutto». Aveva 12 anni lo scrittore Luca Doninelli: «Ero a casa della zia, venne lei a svegliarmi. Allora leggevo i libri di Kolosimo, che mescolava le civiltà precolombiane alle astronavi. Avevo l'entusiasmo di tutti i ragazzini, lo star su di notte, vivere il giorno nuovo della storia, qualcosa di definitivo, un fatto che cambiava il corso dei secoli. Succedeva in me qualcosa che non oso analizzare, ma si riassume nella parola fascino». E oltre l'attimo del fascino? «Non ha cambiato niente, i problemi dell'uomo sono altri. La scienza non può rispondere ai problemi immediati, cerca di rispondere a quelli che lei stessa pone, con l'utilizzo delle scoperte proiettato nel domani». Dodici anni aveva il pilota Michele Alboreto: «Ricordo come fosse adesso. Mio padre era appassionato di aeronautica, ma andare sulla Luna sembrava incredibile. Mi avevano colpito i viaggi precedenti, di preparazione, lo sbarco era la ciliegina sulla torta. E la passeggiata fuori... Anche se con l'occhio di oggi sembra un film di repertorio. Simboleggiava la forza delle imprese che l'uomo può mettere in atto. E poi il coraggio, ma soprattutto l'ambizione, quella sana - sana sottolineato cinque volte, visti i tempi che corrono - che è il motore del mondo». Marco Neirotti II regista: Un grosso spot-tv Michele: E' stato il primo grande esperimento di coinvolgimento 11 pilota: Uomini coraggiosi Gnocchi: Resta un gesto effìmero Luca Doninelli: Ero affascinato

Luoghi citati: Danimarca, Jutland, Roma, Stati Uniti, Venezia, Vietnam