A.A.A. CERCANSI NUOVI STILI PER SCRIVERE LA VERITÀ'

A.AA. CERCANSI NUOVI STILI PER SCRIVERE LA VERITÀ' A.AA. CERCANSI NUOVI STILI PER SCRIVERE LA VERITÀ' delle Idee iperuranio, o un segno scritto su una tavola delle categorie, è l'effetto irripetibile di un concepimento (quasi) poetico. Ecco che allora il compito di una filosofia dello stile consiste nell'interrogare i limiti dell'invenzione filosofica: fino a che punto si è poeti, in filosofia? Fino a che punto non lo si è? Perché, dice Frank, si tratta per lo più di una differenza di grado, non «kinds of writings» o «genres du discours» diversi, ma uno scrivere e pensare che è in misura maggiore o minore motivato da esigenze estetico-formali. Dunque il filosofo sarà «meno» interessato a questioni di tipo estetico-formale riguardanti il proprio linguaggio? E che dire di Wittgenstein, che era quasi ossessionato dal problema del gusto, dell'eleganza formale, della pulizia della forma? Che dire di pensatori «barocchi» come Deleuze, che sembrano continuamente alle prese con invenzioni linguistiche, terminologiche, concettuali (un vero libro di filosofia, ha sostenuto Deleuze, si riconosce dal fatto che inventa un nuovo linguaggio)? La tesi di Frank è che si tratta di un atteggiamento insieme etico ed estetico che era ben noto ai romantici, e specialmente a Novalis; si tratta di una verità artistica che non ha nulla a che vedere con la estetizzazione della verità oggi promossa in stione. La rivista «Aut-Aut» (la Nuova Italia) dedica l'ultimo numero al tema Scritture del pensiero; il saggio-conferenza di Carlo Sini, Filosofia e scrittura (Laterza) ricostruisce i momenti essenziali del problema, dalla condanna platonica del testo sritto a Peirce. L'annuario Filosofia '93 (Laterza), curato da Gianni Vattimo e Maurizio Ferraris, è dedicato alla doppia vocazione, pubblica e segreta, della scrittura filosofica, ossia: il filosofo scrive per i giornali, parla alla televisione, ma segue anche (o si suppone che debba farlo) il proprio «dèmone» filosofico, quel che Hegel chiamava «la tetra interiorità del pensare», e il suo andamento intimo, non-conviviale, anti-retorico. Un libretto di Manfred Frank (Einaudi ha pubblicato da poco II Dio a venire) costituisce forse l'ultima parola sull'argomento: Lo stile in filosofia (Il Saggiatore, pp. 143, L. 18.000). Dice Frank: c'è un disagio tradizionale della filosofia nei confronti dello stile. Ciò avviene perché lo stile è una entità individuale, dunque insofferente all'universalità, dunque fortemente «anti-teorica». Ora occorre però ammettere che c'è una parentela artistica tra universale e individuale. Ovvero: l'universale che escogitiamo o scopriamo, sia esso una entità proveniente da un mondo confondere i piani, a definire se stessa come un «genere letterario», o come libera invenzione poetica, o anche, non trovando altre ragioni e criteri di diversificazione, a offrirsi come soltanto scrittura. Posizioni di questo tipo sono proprie del «testualismo» americano, del «decostruzionismo» di Jacques Derrida, del «neopragmatismo» di Richard Rorty. Negli Anni Ottanta, la questione ha suscitato un dibattito vasto e concitato, che ha visto contrapporsi a Rorty e Derrida, tra gli altri, Jurgen Habermas e Gianni Vattimo, entrambi (pur nella diversità delle posizioni) impegnati a difendere il lavoro filosofico dal rischio di una «estetizzazione» avventata. Come si vede, l'ingenua domanda sulla scrittura filosofica si trascina dietro una pesantissima quantità di interrogativi e corollari, al cui centro è l'ubiquo fantasma della fine della filosofia. L'eventuale insegnante di philosophical writing, in una eventuale cattedra americana con questo nome, dovrà tenerne conto, e sarà trafitto dall'interrogativo essenziale: il problema dello stile filosofico è un problema filosofico, o può rientrare in uno studio tecnico-pragmatico dei generi letterari? Un certo numero di testi pubblicati da poco in Italia documenta lo stato attuale della que¬

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