UNA BIANCA RUSSIA TRA I BISTROT DI PARIGI

UNA BIANCA RUSSIA TRA I BISTROT DI PARIGI UNA BIANCA RUSSIA TRA I BISTROT DI PARIGI Racconti giovanili della Berberova PRIMA di essere riconosciuta, ormai ottantenne, come uno dei maggiori scrittori russi del nostro secolo, Nina Berberova era stata, negli Anni Venti e Trenta, la narratrice prediletta della comunità russa di Parigi e dintorni: una comunità colorita e composita, formata in massima parte di russi «bianchi» che, dopo lo sfacelo delle armate di Denikin e di Vragel, avevano trovato scampo in Occidente con le loro famiglie e, trasformatisi in operai, tassisti, camerieri o suonatori ambulanti, vivevano di espedienti e di ricordi. Si erano disseminati un po' per tutta la banlieue parigina, ma si erano concentrati soprattutto a Billancourt perché lì c'era la Renault e un lavoro sicuro, e in breve tempo all'ombra delle ciminiere si era formata una piccola Russia, strade con le insegne in cirillico, chiese ortodosse, bettole dove si beveva vodka, si mangiavano cetrioli e aringhe e si cantava in coro con le lacrime agli occhi e rituale rottura di bicchieri. Per estrazione e per scelta Nina Berberova apparteneva a tutt'altro ambiente e viveva con gli altri intellettuali dell'emigrazione in un «legame critico, nevrotico, instabile» che lei stessa, nelle pagine autobiografiche di II corsivo è mio, ha chiamato di «antiamicizia». Ma per necessità, col suo compagno Vladislav Chodasevic, dopo avere girovagato per qualche anno tra Marienbad e Sorrento nell'orbita di Gorkij, era approdata anche lei a Billancourt, e proprio in quella comunità di connazionali così estranei aveva trovato la sua prima fonte d'ispirazione e i suoi primi - e per lungo tempo unici - lettori. Un po' per guadagnarsi da vivere, un po' perché per una scrittrice troppo precocemente sradi- Sono feste miserevoli, ma sono le sole che tempi tanto calamitosi e una «sperduta patria casuale» possono riservare. E sono feste fugaci, subito inghiottite dal grigiore quotidiano. E forse è bene così. Se si protraessero, patetiche e velleitarie come sono, rischierebbero di tramutarsi in tragedia, come è accaduto al povero Vanja Lèchin che, per essersi provato a tradurre nella realtà di un romanzo la pericolosa fantasia del suo ritorno in patria, è «morto di immaginazione». Di questi suoi racconti giovanili Nina Berberova sottolineava il significato storico-sociologico (sono la più diretta e forse l'unica testimonianza su quell'umanità sradicata e declassata) e denunciava qualche ingenuità o manchevolezza artistica, in particolare l'adozione di un narratore-commentatore che, in qualche modo interposto tra la scrittrice e la sua materia, si assumeva il compito e la responsabilità dell'ironia. Più che un difetto ma tale la Berberova doveva fin da allora considerarlo perché nelle opere successive se ne è prontamente emendata - è una scelta di comodo, a cui però la scrittrice ricorre con estrema misura e con grande duttilità. Questo filtro non fa velo allo sguardo implacabile della scrittrice che già sa scovare nella massa delle cose i piccoli dettagli impercettibili che, senza equivoci e senza enfasi, mettono a nudo la realtà e non attenua né sovraccarica la cristallina purezza del suo stile che sembra avere scoperto fin da allora che levità e pregnanza hanno un segreto comune.

Persone citate: Berberova, Denikin, Gorkij, Nina Berberova, Vladislav Chodasevic

Luoghi citati: Parigi, Russia, Sorrento