Sul treno del massacro

Così un italiano pieno di ideali, volontario fra gli alleati, visse, suo malgrado, una pagina infamante della storia Così un italiano pieno di ideali, volontario fra gli alleati, visse, suo malgrado, una pagina infamante della storia Sul treno del massacro Quei profughi consegnati a Stalin e Tito tjTtì EL settembre del 1943 il |* protagonista di questa m storia aveva soltanto di1 ciassette anni. Ma era alA_Uto, ben piantato e ne dimostrava più di venti. In famiglia decisero che era meglio toglierlo dalle strade di Roma, dove rischiava di essere fermato da una ronda tedesca e portato in Germania. Grazie a un principe Barberini venne imboscato in Vaticano dove lo nominarono guardia palatina e gli dettero un letto nel seminario della basilica di San Giovanni. Si mise in testa un basco color bordeaux, imparò a presentare le armi in ginocchio e scoprì che il grande complesso della basilica era popolato da alcune centinaia di rifugiati. C'era Pietro Nenni che teneva una tonaca all'attaccapanni in caso di bisogno. C'era il segretario del generale Roatta, capo di stato maggiore. E c'era un ebreo che passeggiava per il giardino, in quelle tiepide giornate di settembre, con un pesante cappotto invernale. «Qui fa caldo - rispondeva quando gliene chiedevano la ragione -. Ma in Polonia non si sa mai...». Ogni tanto il protagonista usciva con un lasciapassare della Città del Vaticano per andare al cinema o a teatro. Era al Quirino il pomeriggio del 23 marzo 1944 per vedere Liolà di Pirandello con Gino Cervi e Andreina Pagnani, quando la sala fu scossa da una fragorosa esplosione. Cervi si fermò per qualche secondo, poi riprese a recitare. Ma dopo pochi minuti calarono il sipario e mandarono tutti a casa. Era la bomba di via Rasella. Dal balcone di una casa vicina vide le autoblinde tedesche che mitragliavano le facciate delle case. Il protagonista si chiama Alessandro Cortese de Bosis ed è nipote di quel Lauro de Bosis che precipitò in mare, come Icaro, il 3 ottobre 1931 dopo avere sorvolato Roma con un piccolo aereo e gettato manifestini antifascisti nel cielo della capitale. E' stato diplomatico, ha girato il mondo, ha lavorato a Mosca e a Washington, ha fatto il console a New York, l'ambasciatore a Budapest e a Copenaghen, e presiede da qualche mese l'American University di Roma. Oggi, a cinquant'an- ni dalla fine della guerra, ha ceduto alla tentazione di pubblicare i suoi ricordi e li ha raccolti, con la prefazione di Edgardo Sogno, in un breve libro con un lungo titolo: In terra di nessuno. Gli ufficiali italiani con i reggimenti alleati 1943-1945 (Roma, Gabrieli Editore). Una storia come tante altre? No, quella di Cortese è una storia diversa, forse troppo «snobistica», elitaria e cavalleresca per entrare a pieno titolo nella grande bibliografia della Resistenza e della guerra di Liberazione, ma viva, accattivante, ricca di personaggi eccentrici e di inattese illuminazioni su una delle pagine meno esaltanti di quel periodo. Quando gli alleati entrano a Roma Cortese ha un solo desiderio: partire volontario. E' pieno di propositi risorgimentali, vuole vestire l'uniforme, riscattare l'onore della patria, combattere contro gli occupanti, emulare il padre che caricò con la cavalleria a Pozzuolo nel Friuli e lo zio che si batté sul Sabotino. Per farsi reclutare insegue gli inglesi e gli americani a Siena, poi a Firenze, e se gli dicono di no torna alla carica senza darsi per vinto. Lo arruola finalmente, in un palazzo del Lungarno Vespucci, una contessa italiana, amica di un tenente («il Grilli, l'hai mai conosciuto?») che era ufficiale di collegamento con l'Ottava Armata, ma veniva dal Savoia cavalleria. Cortese entra in guerra come si entra in un club, con qualche presentazione, una stretta di mano, un cenno d'intesa fra persone dello stesso mondo. In poche ore indossa un battio dress, s'infila con trepidazione i gradi di sottotenente (due stelline d'oro sulle spalle) e passa a tavola con gli ufficiali inglesi del 13° Corpo d'Armata in un'atmosfera che ricorda quella dei collegi di Oxford e di Cambridge quando i professori si passano la caraffa di porto e palleggiano aneddoti storici. Qualche tempo dopo, alla mensa del reggimento, gli capiterà di conoscere un ufficiale inglese capace di ricordare a memoria tutte le nazioni che combatterono con Dario III contro Alessandro Magno a Gaugamela nel 331 a.C, secondo l'elenco che ne fece Plutarco: i batriani, i sogdani, gli sciti, gli aracosiani, i susani, gli indiani, i cariani, i babilonesi, gli albanesi, i prati, i tarpuri, i medi, i siriaci, i giordani, gli armeni. Un capitano carrista intervenne e disse che fra Pisa e Rimini, in quel momento, ce n'erano molte di più: gli americani, i texani, gli afroamericani, i nisei (gli americani di origine giapponese), i canadesi, gli inglesi, gli scozzesi, gli irlandesi, i gallesi, i neozelandesi, i maori, gli indiani (una ventina di popoli dall'Afghanistan all'Himalaya), i gurka, gli ebrei della Palestina, i polacchi, i sudafricani (olandesi, inglesi, bantu, cafri), i tedeschi con i loro ausiliari russi, i francesi, gli algerini, i marocchini, i senegalesi, i brasiliani e gli italiani dei gruppi di combattimento Folgore, Legnano, Friuli, Mantova. Cortese risalì l'Italia centrale combattendo con la fanteria indiana lungo la linea Gotica sul fronte del Serchio e del Senio. Quando dettero l'assalto sul Senio finirono per qualche minuto sotto le bombe delle fortezze volanti americane (quarantasei ondate di trentasei bombardieri ciascuna) che sbagliarono la mira. Poi presero Fusignano, Codignola, sfondarono il fronte e si misero in cammino alla volta di Ferrara dove Cortese trovò un letto nello studiolo all'ultimo piano della torre del palazzo degli Estensi. All'alba del giorno dopo proseguirono per Pontelagoscuro. Era il 23 aprile 1945 e l'autore compiva diciannove anni. Una donna accanto a una fontana parlava con un'amica e si distrasse un momento per guardarlo. Disse in veneto: «El xe un puteo», è un bambino. Il bambino non aveva voglia di tornare a casa e attaccare l'uniforme al chiodo. Quando un ufficiale inglese gli propose di «raffermarsi» temporaneamente per prestare servizio nel campo profughi di Bagnoli, accettò con piacere. Non sapeva allora (lo capì molto tempo dopo) che si sarebbe trovato nel mezzo di una delle più brutte storie della seconda guerra mondiale. Vi erano nel campo circa 2000 persone fra uomini, donne, bambini: qualchu russo, parecchi ebrei e molli jugoslavi, soprattutto croati, sfuggiti alle forze partigiane del maresciallo Tito e del generale Mihalovic. Un giorno il comandante inglese del campo gli chiese di scortare sino a Riccione, in treno, un gruppo di 498 persone, prevalentemente jugoslavi, russi, ucraini. Quando arrivò a Riccione il giorno dopo constatò che la stazione era circondata da soldati inglesi e il passaggio tra i binari sbarrato dal filo spinato. Qualcuno riuscì a fuggire, i più furono portati via. «Sporca faccenda» gli disse il maggiore inglese a cui Cortese consegnò il suo carico umano. Seppe molti anni dopo che quegli uomini e quelle donne stavano per essere consegnati a Stalin e a Tito. In un libro scritto da Nikolai Tolstoi e pubblicato a Londra verso la fine degli Anni Ottanta {The Secret Betrayal, Il tradimento segreto) scoprì che l'operazione era cominciata nel campo di Bagnoli e che il primo contingente si componeva di 498 persone: quelle, per l'appunto, che lui stesso aveva scortato in treno fino a Riccione. Cortese non ha mai dimenticato il nome in codice del «trasferimento»: era Keelhaul, che significa «trascinare sotto la chiglia», dal nome di una vecchia punizione a cui erano soggetti i marinai inglesi nella flotta di Sua Maestà. Ma se pronunciate male, Keelhaul diventa «kill ali», ammazzateli tutti. Sergio Romano mmmmmmmMmmmmmm II libro di memorie dell'ambasciatore Cortese de Bosis Fra gli imboscati del Vaticano, in prima linea con l'Ottava Armata e in servizio al campo di Bagnoli Profughi jugoslavi alla fine della seconda guerra mondiale. Sotto: l'ambasciatore Cortese de Bosis in una foto recente