Delvaux treni stregati di Marco Vallora

Morto a 96 anni uno degli ultimi grandi artisti d'Europa Morto a 96 anni uno degli ultimi grandi artisti d'Europa Delvaux, treni stregati Amò Venie, conquistò Bellini RA da anni, raggiunti almeno i novanta, che non dipingeva più, la cecità lo aveva accolto come in un suo ospizio poco pietoso. Ma ad un amico aveva confessato che i suoi quadri continuava a vederli benissimo, dinanzi ai suoi occhi muti. Che avrebbe potuto minuziosamente raccontarli: come si racconta una trama di romanzo, od una barzelletta. Probabilmente li avrà visti sfilare davanti alle sue pupille spente, come le ossessive locomotive della sua pittura, quelle che gli hanno portato celebrità, che hanno rappresentato come la sua riconoscibilissima firma. E' morto a 96 anni, Paul Delvaux, sicuramente inseguendo i suoi celesti quadri immaginari, i suoi trenini abbandonati nel nulla lunare del senzatempo: gli ultimi decenni li aveva passati a progettare un privato museo-mausoleo, al culmine del quale ieri ha posato silenziosamente la propria morte, a pochi chilometri da Ostenda, nelle Fiandre. Qualcosa di fiammingo, di meticoloso gli era rimasto incollato addosso: ed in fondo anche i suoi scorci di città sprofondate nel silenzio, le sue immaginarie Mitilene o Corinto notturne, inopinatamente attraversate da un trenino elettrico, conservano qualcosa di estatico, di glassato: tipico di una natura morta fiammingaMa non era subito stato così. Ostacolato dal padre, che ne voleva fare un avvocato, il giovane Delvaux aveva trovato nel pittore di rinomanza Frans Courtens un difensore d'ufficio: e s'era avviato verso una pittura pastosa e sfarinata, lontanissima da quella iperrealistica, che gli avrebbe tardivamente dato la fama. Pochissime le opere sopravvissute a quel periodo di carestia: Delvaux non vendeva nulla ed esasperato finì per bruciare ogni cosa. Una retrospettiva piuttosto completa, tenuta a Martigny nell'88, mostrò almeno qualcuno di quei reperti regalati agli amici. Un universo malato di colori decadenti, qualche sbuffo mondaneggiante alla Boldini, ma assai più le atmosfere tisiche e nebbiose di un Turner, di un Whistler. Poi, più che di Ensor (che non amava), l'influenza espressionistica di Permeke, con grandi superfici intrise di smog e di solitudini da periferia ferroviaria, che a noi potrebbero evocare certi ingrigiti versi di Carducci. Il treno, quasi una fissazione: tutte le sue successive abitazioni, vuoi il destino, o che fosse davvero un'ossessiva fissazione freudiana, aprono le finestre direttamente sul melanconico paesaggio ferroso dei paralleli, sfuggenti binari d'una stazione. Poi, in una stazione in disarmo, a Boitsfort, presso Bruxelles, andò praticamente a viverci. E non smise di collezionare trenini elettrici, che probabilmente lo constringevano ad una meditazione allarmata sull'anima satanica e nascosta dentro quegli esagitati scatolini di latta. Certo, il vero choc della sua vita è l'incontro con la pittura di De Chirico, che scopre in una galleria a Parigi: l'artista italiano, dal soppalco dove scruta i visitatori, intuisce l'entusiasmo del giovane, scende, gli dice: «Buongiorno» e questo fu tutto il rapporto reale che egli ebbe con il Surrealismo. Brcton scrisse di lui: «Delvaux ha fatto dell'universo l'impero di una donna, sempre la stessa, che regna sulle grandi periferie del cuore», ma fu tutto e non volle mai incontrarlo. Era uno di quegli artisti che lui chiamava «surréalistes malgré eux». Se ne occupò allora Eluard, che gli dedicò an- che un film. Forse quei «sognisvegli» al Pontefice dell'Avanguardia risultarono un po' facili, troppo trasparenti, didattici. L'inconscio spiegato al popolo. Ed infatti, con i suoi valori monetari altissimi e la sua popolarità trascinante, Delvaux ha sempre fatto un poco storcere il naso ai veri cultori dell'arte. La sua riconoscibilità cartolinesca, la sua ripetitività maniacale, che si fa cifra e sigla, risulta un po' corriva, prevedibile. Non era un caso, del resto, che lui dicesse di Picasso: «Non ci capisco nulla. Mi sembra un fumista». E poi lo ammetteva: non gli interessava la pittura in quanto colore, dettaglio, gli importava «l'atmosfera, il clima poetico». Continuava a ricomporre il puzzle delle sue tele, mescolando i soliti stilemi: stazioni abbandonate, architetture classiche (rubate a De Chirico), palladiane prospettive di città incantate («la prospettiva, che è l'unica terza dimensione della pittura. Il tempo non esiste, si arresta, quando il pittore dipinge»), la sua arcana e solare Grecia immaginaria, mai verificata dal vero, e scelta per vendicarsi di esser nato in un Paese piovoso. E poi la solita vestale nuda, dal passo ieratico, processionale, gli occhi sgranati come dall'atropina di una suspense, che non si vuole svelare. Gli orologi non hanno più lancette, i treni si arenano in stazioni che hanno smarrito nell'erba il geroglifico dei binari: proprio come nella Strategia del ragno di Bertolucci. Ecco, con le sue atmosfere sospese ed il suo onirismo da manuale, Delvaux aveva influenzato molti scrittori (Robbe-Grillet, il Butor di L'impiego del tempo) ed anche registi. Lo amava Felibri, cui il pittore dedicò una sua opera, Roma. Ma non è un caso che il nipote di Delvaux, André, con Una sera, un treno (una locomotiva che si ferma in un paese che non esiste), abbia potuto romanzescamente «filmare» le atmosfere del celebre zio. Come a dire che l'universo di Delvaux è riproducibile, mutuabile in una scolastica. E questo forse è il suo limite: come Balthus, come Dall', come l'amico-rivale Magritte (ma senza il genio dei suoi calembours, del suo illusivismo meta-pittorico) anche Delvaux è riassumibile in una formula: la donna nuda, quasi enigmatico lampione d'una piazza abbandonata, la città dattilografata di lumini, i treni che non ripartiranno, Giulio Verne, «il sapiente che incantò la mia infanzia», che fa una comparsa inconsueta in quel glabro gineceo, con i suoi occhialini ed il gibus. «Io non so come si dipinge un uomo», amava dire, al massimo si permise un gracile ermafrodito, nella Posa. Ma anche la sua modella Danielle la fece posare per più di diciassette anni, la stessa modella: «Non ho mai avuto ben chiare le differenze anatomiche. Ogni volta ricomincio da capo!». Con il rischio di stuccare: succede a Delvaux quello che può succedere con Dino Buzzati. Finiscono di stancare quei manichini come mesmerizzati, quelle ben conosciute atmosfere sospese, quelle labbra sigillate nel gesso di un sibillino silenzio, quelle attese così kafkiane, tra virgolette. I gesti e i suoi stessi personaggi, dislocati ogni volta secondo il principio del déplacement di Lautréamont (il risaputo «matrimonio di un ombrello con la macchina per cucire, sul tavolo di vivisezione») diventano paraventi al significato. Ma non era così importante, per lui, capire: ognuno poteva offrire la sua lettura del quadro, meglio se non psicoanalitica. «Non dobbiamo sempre corcare di spiegarci tutto, la vita perderebbe di fascino», rispondeva a chi gli domandava come mai, come Cardarelli, andava in giro con un pellicciotto anche d'estate, che gli lasciava nude le braccia. Forse era il suo unico gesto bohémien, surrealista, di una vita meticolosa e piccolo-borghese, che ricopiava per la millesima volta la sua modella nuda, Danielle Cannelle. Marco Vallora Le sue inquietanti donne nude. Lui diceva: «Sono cieco ma posso vedere i miei quadri»

Luoghi citati: Bruxelles, Europa, Grecia, Ostenda, Parigi, Roma