Dominique, soldato biondo di Simonetta Robiony

Dominique, soldato biondo Dominique, soldato biondo «Non si può legare il destino alla faccia» ROMA. Per chi aveva vent'anni al principio dei Settanta la Micol di Dominique Sanda nel «Giardino dei Finzi-Contini» resta l'immagine di un'adolescente dorata e imprendibile, bellissima e impossibile da catturare, il simbolo di tutti gli amori di quelli che erano ragazzi allora, amori destinati per l'educazione che si riceveva a non avere una conclusione e, proprio per questo, a conservarsi immutati nella memoria. Dominique Sanda lo sa e ne ride. «E' passato tanto tempo. E poi non si può legare il destino alla propria faccia. Io sono soprattutto un soldato, un bravo soldato pronto a rimettersi ogni volta all'opera». Un soldato non può essere bionda, elegante e fragile come lei. «Il biondo non regge l'impatto col mondo. Se io fossi solo come appaio non avrei resistito. Mi avrebbero mangiato. E invece sono una bionda con una testa, e nella testa sono esattamente come mi descrivo, un soldato, che rimette le cose in discussione, riparte da zero, ricomincia, cerca il rigore, si propone ogni volta un obiettivo e ce la mette tutta per raggiungerlo». Una fatica tremenda. «Dice? Se ne vale la pena, una bella fatica. Non mi siedo mai, non conosco la pigrizia, ho stimoli continui, mantengo una vivacità intellettuale. Non è poco. E poi questo è il solo modo che conosco di vivere. Non saprei fare diversamente». Arrivata al successo a sedici anni scoperta per caso da Bresson, aiutata a diventare una diva da registi come De Sica, Bertolucci, Liliana Cavani, Houston, Frankenheimer, Solanas, Dominique Sanda possiede il fascino sottile delle ragazze intelligenti di buona famiglia, abituate alla cultura, all'introspezione, al rispetto delle regole. Madre di un figlio di ven¬ tidue anni, Yan, che ha voluto da sola e che rappresenta il centro della sua esistenza affettiva, ammette di esser riuscita a farsi piacere il mestiere di attrice solo lasciandosi guidare dai tanti registi che ha incontrato. Il tempo e il modo di studiare per lei non c'è stato. E' adesso, a più di quarant'anni, faccia lavata come sempre, capelli legati a coda di cavallo e quella morbidezza sfuggente che s'è fatta con gli anni come una nebbiolina, che Dominique Sanda ha deciso di andare veramente in fondo all'arte di recitare. E lo fa col teatro. Prima a Parigi «Mrs Klein», un testo modernissimo impostato sul conflitto tra la famosa psicoanalista Melanie Klein e sua figlia. Adesso in Italia «Le relazioni pericolose» con la regia di Mario Monicelli, in una lingua che non è la sua ma che lei sente come una musica interiore. In mezzo il cinema o la televisione: uno sceneggiato internazionale in Bomania sui bambini vittime del regime di Ceausescu, una partecipazione straordinaria in Marocco a «La Bibbia» nel ruolo di Lia, la moglie di Giacobbe. «Il mestiere è venuto a cercarmi prima che lo cercassi io. Dopo è bastato assecondarlo. L'ho sempre fatto con una gran felicità perché mi dava modo di continuare una ricerca interna. Oggi credo di dover finalmente sperimentare le mie capacità autentiche. Voglio crescere perché non voglio fermarmi». Come mai solo quest'anno ha deciso di provare il teatro? «Mio figlio è grande ormai. E' un ragazzo che fa molte cose, esattamente come avrei voluto fare io. Suona, recita, studia, s'interessa di filosofia, forse entrerà in un istituto di scienze politiche. Non sono preoccupata per lui. Ho più tempo per me. E il teatro richiede tempo per approfondire il testo e per rappresentarlo in giro. Oggi questo tempo ce l'ho e lo uso». S'è mai sentita oppressa da un ruolo che non aveva fatto in tempo a scegliere? «No. Recitare è un bellissimo mestiere. Sono stala fortunata. Mi ha dato curiosità, l'orza, e ha costituito un punto di equilibrio tra le mio esaltazioni e le mio depressioni, lo sono anche fragilissima e molto sensibile: recitare mi ha aiutato. E poi mi ha fallo guadagnare piii che a sufficienza per mantenere mio figlio da sola. E' importante por una ragazza che fa un tiglio senza un marito. Sono stata libera. E sono cresciuta con mio tìglio. Ero una madre giova nissima: se non avessi avuto soldi avrei dovuto cedere». Perché la sua carriera è stata tanto instabile? «A volte ho fatto scolto stravaganti, molto soggettive, perfino sbagliato. Ma utili. E poi del mestiere sopporto poco il lato effimero, la mondanità, i rapporti fasulli. Voglio essere autentica. E questo ha un prezzo Infine c'è un'altra cosa ancora». Ouale? «Non avrei mai potuto come Ingrid Bergman, vivere col rimorso di non esser stata abbastanza vicina a mio figlio. Preferisco un successo di mono, ma affetti saldi e amici che mi accettano come sono». Simonetta Robiony

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