DA SYLVIA destino e Versilia

Dfc SYLVIA e quelli della pensione. Famiglie, tombole e poeti: vacanza in una piccola Macondo di Camaiore Dfc SYLVIA estino. e Versilia LIDO PI CAMAIORE DAL NOSTRO INVIATO Ascoltate la voce del poeta: «Quest'anno un c'è la sora Rosa/ passata, 'ome si dice, a miglior vita/ Riva un è venuto! Bella cosa/ La nostra ghenga s'è un po' sfortita/ Un si gioa più a carte/ un si fanno più tornei/ si guarda la tv di sulle porte/ lì a sedè come tanti cirenei». Versi tratti dall'Ode a Sylvia, pensione a due stelle di Lido di Camaiore, Versilia, edificio di tre piani, ventidue stanze, quattrocento vite in transito durante l'estate. Una piccola Macondo con il suo aedo su misura, Andreotti Antonio, da Pisa, ospite fisso dell'estate, direttore della banda quand'è in città, in vacanza organizzatore di tombole e cabarettista, ma soprattutto cantore delle gioie e delle amarezze del mondo di Sylvia. Narratore minimalista («cose nuove ha fatto Pino/ le finestre a paralume/ due cestini in giardino/ per raccogliere il pattume») ma anche capace di alzare il tiro e cogliere i grandi temi dell'esistenza, perché il destino sembra non avere indirizzo e la sfida e l'onore, la morte e l'amore possono anche alloggiare alla pensione Sylvia. La sfida comincia con i proprietari, famiglia Faccio, albero genealogico da fare invidia ai Buendia di Garda Màrquez. Capostipite: Faccio Giuseppe da Cossato (Biella), emigrato nel dopoguerra con KsssmmHHMsattiaa la moglie a Elizabethville nell'allora Congo Belga, a cercare fortuna, a trovare un albergo, chiamato Hotel de Bruxelles, due figli chiamati Giorgio e Sylvia e ' -JHH un mondo particolare: «C'erano i belgi, che guadagnavano miliardi e bevevano birra e gli indigeni che faticavano e facevano la fame. Oddio, ogni tanto beccavi uno che lavava i pavimenti con la bottiglia di whisky nascosta nel secchio per lo straccio, ma lui ti spiegava che era caduta per caso mentre passava, cosa potevi farci?». Un mondo a termine, cancellato dalla guerra d'indipendenza nel 1960. E allora via, di nuovo in Italia, in Toscana, lasciandosi dietro il mal d'Africa e qualche proprietà senza più mercato, trovando un altro piccolo albergo da chiamare come la figlia, un marito per lei, una moglie per il figlio Giorgio, tre nipoti, tutti a vivere lì con il tutto esaurito dal 15 giugno al 15 settembre, a preparare colazioni, fare i conti, rifare le camere, servire il pranzo e la cena, decidere il menù del giorno dopo, accontentare i clienti che vogliono le variazioni sul tema, sorridere, dire a tutti: «Buona notte, a domani. Ci sarà il sole, ha visto che stelle?». Dalle sei alle ventiquattro, orario continuato. Al servizio di quattrocento vite in transito. Al servizio del conte Galati, ad esempio, anni ottanta e fischia, proveniente da Palermo, un cliente che ai Grand Hotel se lo sognano. Uno che ha lasciato la spiaggia di Mondello perché «si è imbarbarita», che scende a fare colazione indossando l'accappatoio con lo stemma di famiglia ricamato sul taschino, poi va al mare e alle undici e trenta spaccate, ogni giorno, immancabilmente, si ripresenta e beve un Negroni triplo. L'ha spiegato lui, Il Francvincitorele loe morto d eschini di tutte terie di felicità a Faccio Giorgio, com'è che si prepara quella bomba alcolica. E da anni offre aperitivo pagato per tutta la stagione a chi accetta di berne una con lui. Il signor De Micco, proveniente da Napoli, usciere al tribunale cittadino, la giudicava una spacconeria da nobile decaduto. «E che ci vorrà?», pensava. L'ha perfino detto, veramente, mentre si avvicinava al banco e ne chiedeva uno anche per lui. Il conte Galati non ha battuto ciglio, ha sorseggiato il suo cocktail, aspettato che l'usciere arrivasse in fondo al bicchiere, mentalmente contato fino a dieci, guardato l'avversario sbiancare, sedersi, chiedere di essere accompagnato in camera. Ne sarebbe disceso solo ventiquattr'ore più tardi e mentre lui saliva barcollante e umiliato c'è da sperare che l'udito gli facesse difetto, perché, in segno di spregio, il conte ordinava: «Giorgio, un altro», come a sottolineare che la classe non è acqua, ■■mssimmmm'n"■<■•> ma qualcosa a più alta gradazione. Qualcosa che non puoi comprare, e comunque gli ospiti di Sylvia non se lo potrebbero permettere, perché, recita l'aedo Andreotti: «Quest'anno mi sembra che un si va/ c'è un tremontio dappertutto/ la gente un è venuta perinquà/ cole tasse s'han mangiato tutto/ Di sigre ce n'è a bizzeffe/ Istituto Ricerche Per Esse Fregati/ ora l'han chiamato IRPEF/ e noi cittadini semo 'ondannati». Ci vorrebbe un colpo di fortuna. Uno che l'ha avuto è stato il signor Franceschini, 56 anni, da Firenze, titolare di una piccola azienda laniera. Venivano in cinque, camminavano in fila indiana, se li ricordano tutti: davanti lui, altissimo, poi la moglie, i due figli e, a chiudere, la nonna, madre del Franceschini. Una sera di Ferragosto ha sbancato. C'era la festa annuale per gli ospiti: balli, tombole, partite a carte («questa sera in diretta/ con il grande tombolone/ noi avremo la valletta/ vera grande innovazione»). Ha vinto tutto lui: quaterna, cinquina e tombola, ramino, briscola e scopone. Si è portato via servizi di piatti e autoradio, tovaglie e lampade comprate con la colletta per i premi. Quando alle due di notte si è ritirato per dormire era visibilmente felice, una felicità da bambini, qualcuno sostiene addirittura che abbia sconvolto l'ordine della fila di famiglia, ma su questo ci sono testimonianze discordanti, alla pensione Sylvia. «Buonanotte signor Franceschini, signor Fortunello». Alle due e trenta era morto. Sua madre era stata la prima a capire che non c'era più speranza. Inutile l'arrivo della Croce verde. Inutili le luci accese in tutte le camere dell'albergo, i commenti e le preghiere. Neanche da trasportare in ospedale. Finito. Da tenere un giorno nella stanza, come da norma di legge, con tutti gli altri ospiti che facevano le scale in punta di piedi, per rispetto, e ai bambini spiegavano: «Fai piano, non svegliare il signor Franceschini che dorme». «Chi, quello fortunato?» («L'anno scorso questa festa/ fu segnata dal destino/ un amico colpì in testa/ lo perdemmo, poverino!/ Un ricordo riverente/ vada a lui, a Franceschini/ noi commossi veramente/ rimaniamo a capi chini»). I due figli vengono ancora in vacanza qui: «E' il nostro mo¬ do di ricordarlo, di onorarne la memoria». Forse avrebbe davvero voluto essere ricordato così, felice e vincente, come una pubblicità del Totip, come non aveva osato sognare mai quando, pur coraggiosamente, apriva la strada al suo plotoncino familia¬ re in quella giungla africana che è l'esistenza. Paola dall'Africa arrivava, come i Faccio, quando decise di passare una vacanza in Italia. Li aveva conosciuti ai tempi dell'Hotel de Bruxelles, li ha ritrovati ai tempi della pensione Sylvia. E ha mx^m*<mmmm.trovato anche l'amore, che veniva da Milano, di cognome si chiamava Lombardi e ha cominciato a corteggiarla sotto il gazebo nel giardino («Dal gazebo alla gran tenda/ dalla giostra all'ascensore/ al telefono, s'intenda/ qui si cambia a tutte l'ore»). Si sono sposati dopo pochi mesi, sono andati a vivere in Sud Africa, hanno avuto dei figli e mandato la loro foto ai Faccio. Catherine, invece, ha mandato tre cartoline in dieci giorni. Tutte da Nantes. Tutte con la stessa scritta: «Chéri, ti ricordi di me?». Tutte per il cameriere Giuliano, che ha lavorato da Sylvia un'estate e non ha mai risposto a Catherine, che stava nella camera undici e gli apriva la porta all'una di notte. Giorgio Faccio passava sulle scale per controllare le luci nei corridoi, ma faceva finta di non vedere: «Perché un bravo albergatore dev'essere un po' miope». Come quando si accorse che la moglie bella e mora del rappresentante siciliano piccolo e geloso che la lasciava sola in pensione dal lunedì al venerdì usciva dall'albergo, svoltava a sinistra e saliva sull'auto di uno straniero per ricomparire alla sera. Abbassare gli occhi e pensare ad altro. Pensare al calcio, che è la sua passione, all'ex campione Benito Lorenzi, detto Veleno, che è stato suo ospite, a Ruud Gullit che è passato nel vialetto e si è lasciato fotografare, ai ragazzi che crescono sotto la sua guida, giù al campo Benelli, e un giorno ha visto uno di loro, Bongiorni, scaldarsi per entrare con la maglia doll'Atalanta, in una partita di Coppa Uefa. Poi non ha giocato, ma c'è ancora tempo per togliersi qualche soddisfazione, ci sono ragazzi su cui scommettere. Nell'attesa c'è la pensione da mandare avanti, l'erba da sfoltire, la gente da accontentare // contein vesstufo dei del Gran Galati taglia «barbari» d Hotel perché così torna. «Son tornati anche i Riva/ Robertone al gran lavoro/ dei tornei anima viva/ gli doniam la palma d'oro». Tornerà il signor Andreotti e chissà cosa racconterà quest'anno, adesso che il suo omonimo è caduto in disgrazia. Il suo vanto, poesia a parte, erano le beffe che riusciva a compiere spacciandosi per nipote dell'Inamovibile. Gli aveva anche scritto e l'Ineffabile aveva risposto, di suo pugno. Una lettera preziosa, che aveva mostrato in più di un'occasione, insieme con la carta d'identità, ottenendo di spalancare più di un portone. Adesso starà meditando di cambiare cognome. I sondaggi consigiierebbero di farsi chiamare Pilo, la logica proporrebbe un bel Dell'Utri. Ammesso che durino. A Giorgio Faccio l'esperienza ha insegnato che il ricambio di ospiti è sempre più rapido. Una volta c'era quella bella clientela affidabile che durava trenta-quaranta giorni, piantava ^^^^^^^^ le tende e diventava padrona dell'albergo, si riuniva in assemblea e suggeriva modifiche e ristrutturazioni per l'anno successivo, certa di esserci ,v«<„^. ancora. Adesso, sette-dieci giorni e poi tutti a casa, a guardare la tivù. Verso il venti di luglio arriva il prossimo ricambio, dicono i Faccio. Facce nuove, facce di sempre. Partiranno in carovana dalle città, attraverseranno un deserto di Paese per arrivare a questa specie di oasi, a un gazebo sotto cui innamorarsi o ascoltare l'aedo che declama: «Come sempre imploriamo/ per noi tutti grandi auspici/ la vacanza dedichiamo/ a che siam tutti felici». Felici lontano dalle periferie delle metropoli, dai «paghi due prendi tre» e quel che prendi lo paghi per tutta la vita, dall'afa ch'è un lago e l'attraversi in gondola su una buccia di anguria per approdare a una riva popolata di omini in canottiere bianche, pantaloncini blu, calzini neri e mocassini marron. Felici qui, dove prima o poi deve passare la nuova frontiera. Perché l'epica, ormai, può essere dedicata solo all'esistenza quotidiana. Il primo a capirlo dev'essere stato l'aedo Andreotti. Quando parte da Pisa per Camaiore, leggendario viaggio di cinquanta chilometri, manca poco che annunci: «Si va, per vincere o morire». In casi estremi, come per il signor Franceschini, si tratta di vincere e morire. Ma alla grande, prendendo tutto il piatto e andandoselo a giocare in un altro mondo, in un altro casinò, dove magari ci sono più giochi e meno imbroglioni. Via così, alla grande. Un giorno da leoni costa tra le sessanta e le ottantamila lire, pensione completa. Gabriele Romagnoli Il Franceschini vincitore di tutte le lotterie e morto di felicità L'Andreotti: «Quest'anno un c'è la sora Rosa passata/ 'ome si dice, a miglior vita/ Riva un è venuto! Bella cosai La nostra ghenga s'è un po' sfortita» // conte Galati in vestaglia stufo dei «barbari» del Grand Hotel Paola: «Arrivava dall'Africa e ha trovato anche l'amore, che veniva da Milano, di cognome si chiamava Lombardi k e cominciò a corteggiarla sotto il gazebo» ; a ... a ....... m i „ unsi A k In alto e In basso: due vedute di Lido di Camaiore. A sinistra: Benito Lorenzi e la pensione Sylvia Ventidue stanze, tutto esaurito quattrocento vite in transito