PROMESSI SPOSI DI FRANCIA

PROMESSI SPOSI DI FRANCIA PROMESSI SPOSI DI FRANCIA Il Manzoni secondo Macchia situazioni o a personaggi carichi di responsabilità di male, fa ristagnare l'azione per fermarsi a dare senso morale a quanto racconta. Giustamente Macchia osserva che la più celebre delle digressioni, quella nel Fermo e Lucia sull'amore escluso dal romanzo, precede la narrazione ampia e minuziosa della vicenda più cupa e trasgressiva proprio nell'ambito dell'amore, quello umano, quello paterno, quello della religione, cioè la storia della monaca del convento di Monza, nella prima stesura chiamata Geltrude. Il passaggio dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi vede, da parte dell'autore, un energico lavoro di potatura, sia delle digressioni, sia degli episodi che troppo si erano dilatati rispetto alla linea fondamentale della vicenda. Ma è anche vero (mi sembra) che il Manzoni viene a dare maggiore credito all'evidenza della narrazione (con la rilevazione che ne viene dall'uso dell'ironia), anche per quel che riguarda la lezione morale degli eventi, senza bisogno dell'intervento costante e del commento. Ma osserva Macchia che anche nella redazione definitiva del suo romanzo il Manzoni propone una grande digressione, che è La Storia della colonna infame, come indagine sulle origini della stortura della giustizia. Il fatto che la causa sia nella scelta pervertita di alcuni uomini, e non l'ineluttabile malvagità dell'uomo, appare confortante al Manzoni, che per Macchia nella Storia della colonna infame raggiunge il culmine della sua arte di indagatore e di giudice delle azioni umane, e creando quel romanzo di un processo destinato ad avere, nell'Ottocento, nel Novecento, grande fortuna (Stendhal, Dostoevskji). Il saggio di Macchia viene così a comporsi come, al tempo stesso, rinnovata e originale interpretazione dell'opera manzoniana, e interamente e approfonditamente dei punti più alti a cui la critica manzoniana sia giunta. Da sommo saggista qual egli è, Macchia analizza il senso di un'esperienza della letteratura che è anche un'esperienza della vita, della storia, della posizione dell'uomo davanti a Dio, nell'orrore del mondo. Credo che ogni ricerca critica sia un confronto inquieto e mai concluso con l'autore e le sue opere: quindi, anche una proclamazione delle proprie idee della letteratura, delle passioni degli uomini, della storia (quella che il Manzoni vede come totalmente destituita di sènso in sé, mentre l'interpretazione che ne dà la Provvidenza rimane celata). Il saggio di Macchia è, nella misura più alta, proprio questo: alla fine della lettura certamente si ha una migliore, più profonda, più viva conoscenza dell'opera manzoniana, dopo che abitudini, formule, idee correnti sono state tutte sconvolte e distrutte dalla lucidità dell'interprete; ma si ha anche il senso di essersi confrontati con un metodo e con una concezione della letteratura che si impongono al di là del Manzoni, per ogni altro autore, per ogni altro tempo. Poesia e verità possono essere anche le due facce mirabili di un'opera saggistica. propna azione. Credo anch'io che la genesi della scelta romanzesca del Manzoni sia da vedere nei cori delle tragedie, che si riverberano, come momento lirico, ancora nel romanzo, là dove il Manzoni più sente l'urgere dell'espressione dei sentimenti, come nel famoso «Addio monti», che Macchia persuasivamente spiega come la pausa di riflessione e di contemplazione dei sentimenti di un coro all'interno della narrazione. Ma, al contrario di tanta parte della critica manzoniana, soprattutto di quella meno recente, Macchia insiste sugli aspetti dolorosamente trasgressivi della vicenda dei Promessi sposi, tanto da definire il romanzo manzoniano un «romanzo di morte», fra guerre, sfide, minacce, fino all'orrore estremo della peste. Come romanzo storico, narra eventi irrevocabili, non compensabili e non consolabili. E' «un'epopea negativa», in quanto rappresentazione del male che è accaduto e dei personaggi che ne sono stati i portatori, come Don Rodrigo e l'Innominato, a proposito dei quali giustamente Macchia cita i nomi dei grandi eroi della trasgressione barocca, Don Giovanni e Macbeth, e come punto di riferimento quel Sade che già è stato chiamato a rendere ragione delle figure dei Promessi Sposi più ferocemente intrise di volontà di far soffrire e di tentare e perdere gli innocenti, come, oltre Don Rodrigo e l'Innominato, anche Egidio o il padre di Gertrude. Più, tuttavia, che il romanzo della paura, quello del Manzoni è il romanzo dell'ostinata resistenza alla paura che incombe sui personaggi di condizione «meccanica» e di piccolo affare, fino a trovare una via, pur tormentata e faticosa, alla salvezza. Ma è vero che l'opera esprime nel modo più alto la tragicità della visione cristiana, quella che tocca il culmine nelle parole di padre Cristoforo di fronte a Don Rodrigo sul giaciglio del lazzaretto, dopo essere stato anch'egli tradito come infinite altre vittime innocenti: se, cioè, l'incoscienza del moribondo sia giustizia o misericordia di Dio. In ogni episodio del romanzo credo che sia sempre presente, in modo implicito o esplicitamente, il giudizio cristiano da parte del Manzoni: ma nella considerazione di padre Cristoforo c'è qualcosa di più, ed è il mistero terribile del giudizio di Dio, delle scelte e delle decisioni di Dio. Credo che la lettura del Fermo e Lucia quale Macchia svolge sia, dal punto di vista del discorso sul romanzo come struttura, la più penetrante che ci sia finora stata. L'alternanza di narrazione e digressioni sta a dimostrare una volontà sperimentale da parte del Manzoni, che si arresta di fronte a la piùstata astsfcimpts e Giovanni IL mio povero padre non capiva che le forze distruttive [del mio carattere] non m'avrebbero condotto alla catastrofe, ma alla più normale delle fini: dopo una vita vissuta, ad un onesto infarto». Così profeticamente scriveva di sé lo scrittore russo Jurij Markovic Nagibin in un bellissimo libro autobiografico recentemente tradotto in italiano. Ed effettivamente, dopo una vita di intenso lavoro, nel giugno scorso, a 74 anni, Nagibin è morto di infarto. E' morto a Mosca, in quella Mosca di cui ha cantato i vicoli, i boulevards, gli Stagni puri, la Torre Mensikov in tanti racconti ambientati negli anni della giovinezza, quando ancora il gigantismo edilizio sovietico non aveva violentato le viscere della «città dalle bianche mura». Il nome dello scrittore russo probabilmente non suggerisce molto al largo pubblico italiano, presso il quale è forse più noto come sceneggiatore dell'indimenticabile Dersu Uzala di Akira Kurosawa e della Tenda rossa con Claudia Cardinale che non come autore di diversi romanzi pubblicati dagli editori Spirali, Reverdito e Rizzoli. E il cinema fu effettivamente la via attraverso la quale il ventenne Nagibin approdò alla scrittura e Giovanni

Luoghi citati: Fermo, Francia, Monza, Mosca