MACERIE DELL'EST
6.. 6.. tuttolibri Saggistica MACERIE DELL'EST 77 crollo delle democrazie popolari secondo Francois Fejtó DA Parigi, dove abita da sessant'anni, Francois Fejtò non ha mai smesso di tenere fisso lo sguardo sull'Europa asburgica in cui è nato alla vigilia della prima guerra mondiale. Ha scritto un saggio biografico su Heinrich Heine e un grande ritratto dell'imperatore Giuseppe II, ha rievocato la distruzione dell'impero austroungarico, ha analizzato il «colpo di Praga» del 1948 e l'invasione sovietica dell'Ungheria nel 1956, ha studiato l'evoluzione delle democrazie popolari prima e dopo la morte di Stalin. La sua vita e il suo itinerario non sono meno «mitteleuropei» e danubiani dei suoi libri. La sua storia personale s'iscrive all'interno di una «repubblica» affettiva e intellettuale attraversata dal Danubio e bagnata dall'Adriatico. Le sue capitali sono Budapest dove fece gli studi, Vienna, dove viveva l'odiato e amato imperatore, Zagabria, Fiume e Trieste dove passava lunghe vacanze con parenti ungheresi e croati. E' nato ebreo in Ungheria nel 1910, ma si è convertito al cattolicesimo negli anni in cui era studente liceale e un giovane prete di nome Mindszenty pronunciava infiammate omelie dai pulpiti delle chiese magiare. Ha abbracciato la fede comunista, ma ha abiurato qualche anno dopo per diventare socialdemocratico. Ebraismo, cattolicesimo, comunismo, socialdemocrazia, nostalgia asburgica e passione repubblicana: si direbbe che Fejtò abbia voluto riassumere con la sua vita tutte le principali identità intellettuali e morali dell'Europa danubiana e balcanica. Il pensiero corre a Joseph giati, strutture economiche, istituzioni civili e una tecnocrazia di Stato corrotta e indolente, ma non priva di una sua grigia competenza professionale. Nel 1989, quando il fallimento delle riforme gorbacioviane si è propagato come una scossa di terremoto attraverso le fondamenta dei regimi satelliti, l'«opposizione» al comunismo imperante era rappresentata da un commediografo a Praga, un traduttore a Budapest, un filosofo a Sofia, un violinista a Vilnius, un elettricista a Varsavia. Non è sorprendente, in queste circostanze, che le uniche forze emerse alla superficie con prepotenza dopo il suicidio del comunismo sovietico siano state quelle delle identità tribali e religiose. Non è sorprendente che la Jugoslavia sia diventata teatro di guerre civili. E non è sorprendente infine che in Lituania, Polonia, Ungheria, Keith Thomas L'uomo e la natura Einaudi pp.419, L. 75.000 Bulgaria gli elettori, dopo le prime esperienze democratiche, abbiano ridato il potere, nelle ultime elezioni, agli esponenti della vecchia tecnocrazia comunista. Gli autori non credono, tutta. che questo voto possa inter- etarsi come una manifesta"<~ di nostalgia per i regimi par' -ui. Apparentemente «tornati» al potere i vecchi comunisti sono in realtà consapevoli del fallimento della loro ideologia e stanno gradualmente pilotando i loro Paesi verso nuove forme economiche e politiche. Sono molto spesso l'unica classe dirigente che abbia esperienza di pubblica amministrazione e sappia dove metter le mani per mandare avanti la macchina arrugginita dello Stato postcomunista. Accanto alla tragedia jugoslava e ad altri potenziali focolai di tensione etnica il quadro segnala la crescita della produzione polacca, il successo delle privatizzazioni ungheresi, la positiva gestione economica di Vaclav Klaus a Praga, le buone prospettive del sistema sloveno. Molto, ora, dipende da due fattori: la politica della nuova Russia verso i suoi vecchi satelliti e quella dell'Unione Europea verso le economie emergenti della regione. Dopo la «rivoluzione senza rivoluzionari» del 1989 ci ricordano gli autori - è cominciata una rivoluzione più lenta e meno visibile di cui conosceremo i risultati soltanto fra qualche anno. Sergio Romano Francois Fejtò La fine delle democrazie popolari Mondadori, pp. 560, L. 55.000 ma che porta a due atteggiamenti opposti: chi è convinto, come gli ambientalisti, che esista un «ordine naturale», ritiene che esso abbia anche un valore intrinseco, indipendente dall'uomo. Chi invece non crede nell'«ordine naturale», considera ambiente e risorse come un «magazzino» da sfruttare. Ecco dunque scontrarsi due filoni teorici: la natura, per usare due paroline greche molto in voga oggi, ha il volto buono di «Gaia» o quello cattivo di «Caos»? E la scienza dev'essere «arcadica» o «imperialista»? Sir Isaac Newton era convinto che la natura ticchettasse con la precisione di un orologio, ma ogni giorno siamo sorpresi da decine di imprevisti: code inspiegabili sull'autostrada, previsioni meteorologiche sballate. La contraddizione, dice Worster citando Horkeimer e Adorno, è nata nel '700: si tratta di scegliere se usare la Ragione per liberare lo spirito, cercando l'ordine, lo scopo supremo dell'esistenza, o se impiegarla per dominare la natura, dissacrando il mondo e riducendo tutto in termini quantitativi. Ma questo atteggiamento porta «all'alienazione spirituale degli uomini dalla natura e da lì alla mercificazione e industrializzazione del mondo». Almeno su un punto, conclude Worster, gli studiosi sono d'accordo: la natura pullula di forme diverse che vanno difese. Non per congelarla e chiuderla in un museo, ma per salvare la varietà dei cambiamenti e far «convivere la storia di una barriera corallina con quella di una città costiera». Perché «il ritmo furioso delle innovazioni computerizzate può essere giusto per una comunità affaristica e competitiva, ma non è adatto o sempre compatibile con l'evoluzione di una foresta di sequoie». Carlo Grande Donald Worster Storia delle idee ecologiche il Mulino, pp. 563, L 54.000
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