Tutti al telefono tradimento
Interno Venerdì 15 Luglio 1994 LA STAM ROMA. Urla, Cesare Salvi, mentre sventola nell'aula del Senato un foglietto. Sono le sette e venti di sera e il ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Biondi, solo nei banchi deserti del governo, guarda interrogativamente il capogruppo progressista. L'esponente del pds alza la voce e mostra a tutti ciò che ha in mano: un flash di agenzia. «Berlusconi - grida - è riuscito a fare quello in cui Craxi aveva fallito: ha eliminato il pool di Mani pulite». Il Guardasigilli, paonazzo in volto, continua a non capire, mentre gli esponenti delle opposizioni lo ricoprono di insulti ed improperi. Carlo Scognamiglio tenta invano di farli tacere. Poi, finalmente, Biondi si rende conto di quello che è successo: Di Pietro e company si sono dimessi. E allora urla ancora più forte dei progressisti: «Se, ogni volta che prendiamo una decisione, dovessimo attendere il gradimento dei magistrati, saremmo un governo e un Parlamento a sovranità limitata. Ma noi non desideriamo essere sottoposti a custodia cautelare». Biondi è stremato. Non si aspettava tutto questo putiferio. Ma quelle che ha pronunciato non sono state parole buttate lì a caso, mentre infuriava la bagarre. Il Guardasigilli non ha fatto altro che esporre la linea della maggioranza, di tutta la maggioranza: il decreto non sarà ritirato, nemmeno di fron- PALAZZO CHIGI IN CAMPO MROMA ENTRE parla in quell'incontro veloce al primo piano di palazzo Chigi Umberto Cecchi, Gian Piero Broglia e Alessandro Meluzzi, deputati di Forza Italia, pendono dalle sue labbra. Sono andati lì per chiedere al capo il da farsi visto che le tensioni sul decreto sulla custodia cautelare, sulla sfida lanciata dal governo alla magistratura, si stanno trasformando in «scontro». E lui, Silvio Berlusconi, senza andare troppo per il sottile spiega loro che questa volta se i giudici dichiareranno guerra, sarà vera guerra. Dice il capo del governo: «Questo è un prowedimento irrinunciabile. Su di esso sono pronto a verificare la maggioranza. O passa il decreto, o si va a casa. Nel paese c'è una situazione intollerabile. Gli arresti di questa notte sono stati fatti in pieno dispregio di un prowedimento approvato dal governo e controfirmato dal Capo dello Stato. La verità è che stanno facendo un uso politico della giustizia». Il «dado è tratto», non si può più tornare indietro. Ormai il capo del governo ha deciso di andare fino in fondo. A quell'ora il «tam-tam» di Milano ha già fatto sapere qual è l'ultima minaccia dei giudici del «pool» di mani pulite: le dimissioni dall'incarico. Ma anche quell'«arma» definitiva non fa recedere il presidente del consiglio. Berlusconi si preoccupa solo di informare i suoi uomini e gli alleati, da Fini a Tatarella, da Bossi a Maroni, che non permetterà al governo di tornare sui propri passi. Chi volesse farlo si dovrebbe assumere la responsabilità di trovare un altro presidente del consiglio e un'altra maggioranza. Il messaggio è chiaro e Meluzzi, Broglia e gli altri non si fanno pregare due volte, tornano a Montecitorio e dichiarano ai quattro venti che la guerra contro Borrelli, Di Pietro e compagni è cominciata. E più parlano e più si capisce che le loro parole echeggiano discorsi sentiti a palazzo Chigi. «Quello che stanno tentando di fare i magistrati - grida Broglia, che non misura certo le parole - è un "golpe". Siamo al fascismo dei giudici. Sì, preferisco gli "ayatollah" iraniani, vado a vivere in Iran. Questi mettono dentro la gente per fargli confessare qualcosa contro la Fininvest. E' un'operazione politica: basta con il "violantismo", basta con quel picio di Di Pietro». Meluzzi non è da meno. Addirittura offre anche una consulenza da psichiatra. «Io làccio questo mestiere - spiega - e so benissimo a quali pressioni è sottoposto un uomo in cella. Possono farti confessare quello che vogliono». E mentre i due incitano gli uomini di Forza Italia, alla buvette, Ombretta Fumagalli, ministro PA Interno Tutti al telefono; tradimento
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