Il pentito sale sul Colosseo di Francesco La Licata

Dodici ore di protesta per Vincenzo De Caro, cognato di Mutolo Dodici ore di protesta per Vincenzo De Caro, cognato di Mutolo Il pentito sale sul Colosseo «Lo Stato ci ha usati e poi abbandonati» LA RABBIA FRA I TURISTI CROMA ERTO, per uno che sull'anonimato ripone tutte le garanzie di sopravvivenza, arrampicarsi sul Colosseo per gridare la sua protesta di «pentito abbandonato» non deve essere stata una scelta facile, né - ovviamente - saggia. Solo una grande disperazione può spingere un uomo braccato dalla mafia ad «esporsi», anche se per qualche ora soltanto, tra mille turisti, insieme coi resti dell'anfiteatro Flavio e, per di più, sbandierando uno striscione bianco con scritte (in rosso) di questo tenore: «Sono un collaboratore contro la mafia. Gli interessi di carriera ci stanno distruggendo. 20 miei familiari sono scampati ad una strage per pura casualità. Maggio 1994, Vergogna!». Il rimprovero, è naturale, sembra rivolto al governo e a chi è demandato alla protezione dei pentiti. Con questo «numero», ha inteso protestare Vincenzo De Caro, 55 anni, palermitano originario della borgata di Pallavicino, famoso più per essere il cognato di Gaspare Mutolo - collaboratore di ben altra stazza - che per il contributo offerto alle forze di polizia. Eppure non è nuovo ad iniziative del genere, Enzo De Caro che, proprio martedi scorso, dal cognato - interrogato al processo a Contrada - è stato definito «uno che non sapeva niente perché non è neppure uomo d'onore». De Caro divenne collaboratore nel 1986, dice lui, «quando mi accorsi che avevano trasformato mio figlio Carlo, un ragazzo sistemato e incapace di fare del male, in un corriere della droga». Ben presto padre e figlio entrarono nella schiera dei collaboratori, ma, purtroppo per loro, in un momento difficile, quando cioè l'assoluta assenza di iniziative e di leggi a favore di chi si dissociava da Cosa nostra finiva col consegnare alla «buona volontà» dei singoli investigatori la sopravvivenza di molti «collaboranti». Venne a crearsi, cosi, una sorta di «parcheggio» per «pentiti di serie B», quelli che non avevano l'importanza di un Buscetta, di un Calderone o anche di un Mannoia. In questo limbo sono rimasti De Caro e tanti altri, in attesa che la legge - finalmente approvata - potesse riportarli alla normalità. Ma non sembra un buon momento, quello attuale. Neppure per i pentiti «storici» il futuro appare roseo. Le ultime polemiche non hanno certamente «confortato» i collaboratori della giustizia che si sono visti accusare di ogni sciocchezza. Persino Riina, tra una ergastolo e l'altro, ha potuto lanciare una campagna di intimidazione contro il pentitismo, indicando i suoi ex amici come nelle mani dei «comunisti» o di giudici manovratori. Tutto ciò sarebbe poca cosa se non fosse stato seguito da vendette trasversali annunciate (quelle quasi invocate da Riina, appunto], tentate (la bomba contro Salvatore Contorno) e addirittura eseguite (l'assassinio del parente di Carmine Alfieri). In un clima del genere non deve essere stata d'aiuto alla stabilità emotiva dei collaboratori la decisione di alcuni legali di rimettere il mandato, sull'onda delle polemiche sul cosiddetto cumulo delle difese. Per non parlare delle accuse, più o meno velate, di «intimismi investigativi» o di «rivelazioni a tempo» o di «interrogatori guidali», che hanno indotto i reparti investigativi specializzati (Bos, Dia e Sco) - negli ultimi tempi garanti della sicurezza dei pentiti - a rinunciare a questo compito, affidandolo a strutture territoriali come i commissariati, le stazioni dei carabinieri e le squadre mobili. Proprio questa iniziativa delle forze «specializzate» ha provocato un contraccolpo negativo per la sicurezza dei pentiti. L'eccessivo numero di agenti che si trovano ad avere a che fare coi singoli «protetti», fa cadere l'unica vera «garanzia» per la sopravvivenza dei collaboratori: l'anonimato. Se il pentito è costretto a farsi vedere al commissariato, in breve la sua identità sarà nota a tutto il quartiere dove abita. E non ve città dove un simile inconveniente possa essere superato. Per questo protestano, gli ex mafiosi. E protestano anche perché il servizio di protezione non ò più solerte come una volta nel venire incontro alle loro necessità. Il medico? La scuola per i bambini? L'assistenza per una pratica in banca? Da qualche tempo le cose vanno più a rilento e tra i collaboratori serpeggia il sospetto che li si voglia «abbandonare». Più realisticamente, è avvenuto che il servizio di protezione si è trovato a dover badare, in breve tempo, a più di 3000 persone (760 collaboratori e 2500 familiari). Chiaro che la struttura scoppia. Anche se, forse, è pure vero che qualche «disattenzione» di troppo, i pentiti, l'hanno subita. Nessuno ha ancora cambiato nome, nessuno dei familiari ha trovato lavoro. In compenso, per uno è arrivata la sorveglianza speciale. Ma poi gli hanno detto che si era trattato di un errore. Francesco La Licata mmm " Soft Il pentito Gaspare Mutolo