viaggiatori in Italia 1869 un giornalista americano a Firenze Il reportage sarà un best seller di Alessandro Baricco

viaggiatori in Italia. 1869, un giornalista americano a Firenze. Il reportage sarà un best seller viaggiatori in Italia. 1869, un giornalista americano a Firenze. Il reportage sarà un best seller Affittò una villa del Seicento che chiamava la baracca ducale gliesse la voglia di litigare per niente. Povera Livy, aveva subito un colpo tremendo al cuore il giorno che la loro figlia Susy era morta a 24 anni di meningite. E si sarebbe meritata qualcosa di più allegro di quella casa seicentesca che Twain, mordendo il sigaro per la rabbia, chiamava «baracca ducale». Curioso destino, quello di questo giramondo americano che dalle canzoni dei neri del Missouri aveva imparato quanto sia compatibile l'umorismo con la tristezza. Era diventato celebre a 34 anni proprio con Gli innocenti all'estero, raccontando le avventure di quei bigotti americani in gita, che a Livorno erano stati scambiati per garibaldini travestiti. E paradossalmente aveva finito per sentirsi a casa sua nel vecchio mondo, dopo aver constatato che solo l'America aveva un barlume di dignità democratica. Che trovata aveva avuto a usare l'umorismo per smascherare la realtà, richiamando scherzosamente l'attenzione sulla sporcizia, la rapacità e la superstizione dell'Europa (il protagonista del suo libro mostrava saponette ai poliziotti fiorentini un po' stupiti, con la stessa affettuosa affettazione con cui avrebbe mostrato degli specchietti ai pellerossa). Tuttavia, invecchiando, Mark Twain aveva cominciato a usare l'ironia anche all'inverso, per na¬ celebre per aver guida un neon sul comodino. Roba che ti senti una coscia di sanato nella vetrina di un macellaio. Ma si può? Anche Catherine Deneuve sembrerebbe brutta, sotto la luce al neon. Figuriamoci un libro. Lo chiudo e lascio perdere. Meglio andare direttamente a naufragare nel gran catino dell'Arena, in mezzo a legioni di tedeschi in impermeabilino da stadio. Dopo una serie di comunicati di non so quale Osservatorio meteorologico, il cielo la smette effettivamente di far casino e, con un'ora e mezzo di ritardo, Pollione entra nella sacra selva gallica dove coltiva la sua particolare predilezione per sacerdotesse vergini: corazza da romano, stazza da Chris Merritt, passo goffo e tronfio, voce che sventaglia alla bene e meglio acuti improbabili. E' solo l'inizio e già ti senti a mollo nel ridicolo. Indifendibile. Lo spettacolo più assurdo del mondo. Il fatto è che, sempre, il Melodramma deve combattere una scondere la verità. E ora guardava gli amici che lo andavano a trovare a Villa di Quarto dalle sottili fessure degli occhi verdi azzurri, sotto l'arco delle sue sopracciglia spioventi come un piumaggio, con un buonumore che nascondeva una distanza remota. E li accoglieva vestito interamente di bianco, bianco tutto l'anno, «perché preferisco essere pulito... pulito in un mondo sporco, l'unico uomo vestito in modo pulito nell'intera cristianità a Nord dei Tropici». Che non avesse una grande opinione della razza umana era già chiaro fin dalle avventure di Tom Sawyer e di Huckleberry Finn. «Creare l'uomo è stata un'idea ingegnosa e originale - scriveva - ma aggiungere la pecora è stata tautologia». E ora che si avvicinava al termine della sua vita, iniziata da improbabile Gesù Bambino con il passaggio della cometa di Halley nel 1837, e destinata a terminare, come aveva sempre immaginato, alla sua successiva apparizione in cielo nel 1910, Mark Twain era davvero curioso di vedere se nell'aldilà i suoi sospetti sarebbero stati confermati. Se cioè l'universo fosse fatto di migliaia di mondi diversi ognuno con la propria cultura e le proprie regole di funzionamento. E se visto da lassù il pianeta Terra, di cui andava tanto orgogliosa la cultura vittoriana perché era la patria dell'homo sapiens, fosse davvero noto come «la verruca». Doveva essere uno spettacolo bizzarro per i fiorentini vedere quello scrittore così celebre per aver guidato da giovane i battelli sul Mississippi, cercato l'argento nell'Ovest, percorso più di cento miglia a piedi per accettare un posto di giornalista, o passato anche tante notti in cella per aver denunciato la corruzione di San Francisco, godersi adesso la brezza della campagna dicendo amabilmente «dov'è il gatto?» alle stupite nobildonne che gli volavano intorno come uccelli del paradiso. Ma la verità è che quel settantenne esuberante aveva bisogno di riposo, dopo essere rimasto travol; ; b a r n u m LO SPETTACOLO DELLA SETTIMANA to dal fallimento della casa editrice di cui era socio, e aver ripagato tutti i suoi debiti lavorando come un forzato. «Siamo tutti d'accordo che la vita in una villa fiorentina è un'esistenza ideale», aveva scritto nel 1892, quando aveva affittato per un anno Villa Viviani a Settignano. «Il tempo è divino, gli aspetti esteriori deliziosi, i giorni e le notti tranquilli e riposanti, l'isolamento dal mondo e dalle sue preoccupazioni soddisfacente quanto un sogno». Ma ora la situazione era diversa. Ora Livy stava morendo. Il loro era stato un matrimonio d'amore e guerra, lei così saggia e religiosa, lui irrequieto e insofferente nei confronti dei peccati della Chiesa. «Per quel che posso vedere, l'Italia, per quindici secoli, ha impiegato tutte le sue energie, tutte le sue risorse, tutta la sua industria per la costruzione di un immenso apparato di magnifiche chiese, affamando metà della sua popolazione per riuscirci. Oggi è un unico, immenso museo di magnificenza e miseria», aveva scritto nel 1869, indignato da un Paese in bancarotta governato dai preti. «Guardate il grandioso Duomo di Firenze: una massa immensa che ha dragato le borse dei suoi cittadi¬ ni per cinquecento anni, e non è nemmeno lontanamente finito. Come tutti, io cado in ginocchio e lo ammiro, ma quando i sudici mendicanti mi si affollano intorno il contrasto è troppo forte...». L'anima democratica di Twain inorridiva all'idea che a Firenze le ossa di Galileo marcissero in terra sconsacrata per la sua eretica scoperta che il mondo gira in tondo. Che Andrea del Sarto fosse stato affamato dai principi che aveva ritratto, dopo averli salvati dall'oblio che meritavano. Che Raffaello avesse dipinto creature degne dell'inferno come Caterina e Maria de' Medici, mentre sedevano in paradiso a chiacchierare con la Vergine Maria e gli angeli. «E tuttavia i miei amici mi prendono in giro perché ho qualche piccolo pregiudizio nei confronti degli antichi maestri... ma io continuo a protestare contro lo spirito abietto che ha potuto persuadere quei maestri a prostituire i loro nobili talenti per l'adulazione di (questi) mostri...», scriveva negli Innocenti all'estero. Poi, cambiava tono. E si metteva a recitare il copione del babbeo che si entusiasma ad ogni crosta, e pensa che il signor Rinascimento sia stato il più prolifico pittore del mondo. Twain la sapeva lunga sull'ignoranza degli americani. Ma a modo suo la rispettava perché quello era il suo vero pubblico. Di¬ (Norma) che nella voce ha qualcosa della voce della Callas e nel modo di stare in scena tutto il delicato stile di John Wayne. Non succede proprio quando canta Merritt, che in effetti non canta, spara note. 1 Galli si logorano in quell'andirivieni che già in un teatro normale suona vagamente ridicolo, figurati lì, dove ogni entrata o uscita deve assomigliare al corteo trionfale dell'Aida. Alle loro spalle, in alto, sulle gradinate, una falange romana fa le esercitazioni mettendosi in assetto da guerra o sfilando oziosamente, e la cosa immagino debba essere considerata come la firma geniale del regista, niente di meno che Werner Herzog, quello di Fitzcarraldo eAguiìre, un genio, effettivamente, che però a Verona ci deve essere venuto col misurato intento di non lasciare la benché minima traccia di sé. Sono quasi le due quando Norma e Pollione risolvono la faccenda mollando lutti lì a vedersela ceva: «I miei libri sono come acqua, quelli dei grandi genii vino. La gente beve acqua», e continuava a riconoscersi in Tom Sawyer, il Don Chisciotte in miniatura che scorrazza sulla riva Ovest del Mississippi, anche quando sedeva a tavola col Kaiser, o entrava a Vienna con gli onori di un Absburgo. Era un autodidatta che si era laureato alla scuola degli oratori erranti del West, in un'epoca in cui i loro discorsi erano il solo intrattenimento insieme con i sermoni, le impiccagioni e gli spettacoli da saloon. E dall'alto di quella vetta impervia poteva permettersi di prendere in giro un poeta sulle cui rime si ingobbivano migliaia di studiosi diligenti, chiamando il Petrarca «quel gentiluomo che amò la Laura di un altro uomo e le prodigò per tutta la vita un amore che era un evidente spreco di materia prima... Ma chi dice mai una parola sul povero Mister Laura? (non conosco il suo vero nome). Chi lo glorifica? Chi lo copre di lacrime? Chi scrive poesie per lui? Nessuno. Pensate che a lui piacesse quello stato di cose che ha dato al mondo così tanto godimento?». Ed è così che mentre il sole calava sul giardino di Villa di Quarto, quello scrittore che era considerato un eroe della cultura americana se ne stava a giocherellare con la penna e un giornale italiano, commentando la notizia che una principessa Schovenbare-Waldenbure era fuggita col cocchiere («Sono dispiacentissimo»). Aveva 27 anni, più o meno l'età delle sue figlie Clara e Jean, cui non permetteva nemmeno di portare fiori sul cappello. E non sapeva che, di lì a poco, quei fiori che considerava una frivola civetteria, avrebbe dovuto posarli anche sulla tomba di Jean, di fianco a quelle di Susy e Livy. Dicono che fosse perché assomigliava a Susy, che a bordo della nave che Io riportava in Europa per l'ultima volta nel 1909, Twain si mise a fare il sentimentale con una ragazzina di diciott'anni. Ma lei si stancò presto di tutte quelle attenzioni, e non si presentò a un appuntamento convenuto. «Charley, cara», le scrisse Twain per convincerla a uscire dalla sua cabina e fargli un po' di compagnia, «non sai cosa ti stai perdendo. Ci sono più di duemila focene in vista, e undici balene, e sessanta iceberg, e tutt'e due le Orse, e sette arcobaleni, e tutte le navi da guerra di tutte le flotte, e io». Lo Stewart le disse che era stata una vergogna lasciare attendere così un vecchio gentiluomo, a camminare avanti e indietro sul ponte della nave. Le colline del Chianti amate dallo scrittore americano Livia Manera con la Storia e salendo su un rogo a far da combustibile. Fumo a volontà e immani tizzoni ardenti arrampicati su per le gradinate dell'Arena: nelle orecchie quel sorprendente finale trovato da Bellini chissà dove, sembra un piccolo Wagner, ti scala i nervi gradino dopo gradino, usa l'armonia come un'implacabile garrota del cuore. Te lo porti via, quel finale, uscendotene dall'Arena, insieme all'improvviso desiderio di risentirti tutta Norma, ma in un posto piccolissimo, dove tutti possano cantare sottovoce e filare quelle melodie con mano leggera, e i Galli siano pochi, e i Romani assenti, e tutto sia un domestico rigirarsi l'irrisolvibile teorema del cuore, con dolcezza e privatamente, nascosti dalla Storia, rifugiati nella musica e basta. Alla fine, nessun rogo: si alzerebbero, Norma e Pollione, e semplicemente spegnerebbero tutte le candele intorno, minuscolo segno di resa di due piccoli cuori normali. Alessandro Baricco