I maestri delle fiabe cattive di Marco Vallora
Viaggio da Van Gogh a Mondrian Parigi riscopre i capolavori segreti e perversi dell'arte olandese moderna I maestri delle fiabe cattive Viaggio da Van Gogh a Mondrian I PARIGI L * CHERZAVA quel maliziom so di Heine: «Se il mondo Il muore, bisogna rifugiarsi hd, I subito in Olanda, perché tutto colà vi arriva con cinquantanni di ritardo». Non è vero, ovviamente, e lo rivela bene la mostra parigina «La bellezza esatta. Da Van Gogh a Mondrian», che si tiene al Musée d'Art Moderne di Parigi. Dimostra che «il paese melmoso in cui non si può dipingere», da cui Mondrian fuggì per preservare, a New York e Parigi, la sua teologia dipinta, era capace di generare fermenti ben vivi. «La bellezza esatta» è un titolo seducente, ma forse non troppo esatto. E' perfetto per illuminare una delle due anime che attraversano questa mostra: quella messianica e geometrizzante delle Realtà astratte, che tocca pittori come Theo Van Doesburg, il meno conosciuto Bart Van der Leck ed il «secondo» Mondrian; coagulandosi intorno al gruppo De Stiil, 1917, Rivista in movimento, cui è dedicata un'interessante sezione a sé nell'ampia retrospettiva, ricca di documenti e di fotografie. Ma è difficile invece definire esatta la bellezza, certo più revulsiva ed intrigante, che tocca l'altro vertice della cultura olandese novecentesca, più misteriosofica e cifrata e che prevarica in verità l'intiera rassegna. Cioè l'ala nutritissima delle Realtà naturali: Simbolismo, Esoterismo, Sovra-realismo. Una bellezza profonda, subconscia, spesso perversa, tutt'altro che asettica. E' vero, non è possibile dimenticare che anche l'anima profonda della geometricità da clinica sterile di De Stiil è permeata di influssi teosofici: Mondrian per primo non nasconde la sua matrice iniziatica, accennando agli sforzi per «ottenere conoscenze occulte» o trovare «la via ascendente che fugge la materia». Ma appunto, Mondrian non lo si può considerare soltanto un astratto: compare qui ed anche molto ben rappresentato, quasi a rischiare il confronto quale pittore post-simbolista, di suggestive marine e di melanconici filari di pioppi, riflessi nelle intorbidate paludi della Zelanda. Un pittore grandissimo, che lascia respirare la vena della tavola, allontanandosi dalle marine più accademiche della scuola dell'Aia, per rasentare cieli sgombri e volubili, che già fanno presentire De Stàel. Poi via via, attraverso l'ossessione ortogonale del principio orizzontal-femminile del mare e quello erettile-maschile dell'albero, dopo un innamoramento pressoché paralizzante per il cubismo di Braque e Juan Gris (una vera mutazione antropologica) ecco nascere quel mareggiare secco e clavicembalistico, mentale, della sua musica astratta. E accanto a lui galleggiano ancora però i fantasmi di ben altre realtà esoteriche. Jan Toorop, il pontefice dell'arte simbolista olandese, non a caso nato in Indonesia (conserverà sempre l'imprinting della sua curva ondulata del bambù Art Nouveau: al Nord si dice «ar- te dell'olio da tavola», per stigmatizzare una certa sinuosità) amico di Khnopff, di Rops, di Van der Velde, di Verhaeren e di Maeterlinck, cioè della più cemeteriale letteratura belga decadente, ma non ignaro nemmeno dell'Art and Craft alla Williams Morris, riempie le sue tele miniate e monocrome di graffiti dettagli neo-medievali, uominialbero e sinuose capigliature trappola (un poco alla Wildt) che si solidificano in onde marine, debordando spesso sin sulle livide cornici, quasi a metaforizzare l'arte che tracima nella vita. «Noi rinunciamo al reale» predicava Denis: gli olandesi, eredi della stupefatta meticolosità di Vermeer o di Claesz, continuano a raccontare paesaggi e persone, ma disponendoli sul tavolo oleato e chirurgico della natura morta. Jan Mankos, il «miope», che morirà presto, tubercolotico, si autoritrae ossessivamente in compagnia di civette, che evocano lo stile glassato e le iconografie con falcone di Holbein e compagni fiamminghi: un Corazzini riletto attraverso la tecnica del Bronzino. Charley Toorop, la figlia di Jan, violinista mancata che si ribella alla conversione troppo plateale (in stile Huysmans) del padre rosacroce al cattolicesimo, campa le sue enormi figure un poco populistiche, quasi fossero sculture di vene e di metallo: riprendendo anche l'iconografia rinascimentale dei ritratti di gruppo. Non nasconde le sue simpatie littorie, anzi tout court naziste, Pyke Koch, che diceva «preferisco avere le pulci, piuttosto che delle teorie». Con i suoi autoritratti decollati di «martire dal pelo di martora» lavora «di rasoio» e non di ascia, come il surrealismo, squarciando l'inconscio. Figlie di chirurgo, lettore di Freud, il sadico «medico» Koch una specie di Gottfried Benn del pennello - moltiplica le sue donnacce da trivio, le sue gommose castratrici da luna park, le Asta Nielsen verdastre di vomito, de¬ gradate a fantasmi da angiporto. Non meno velenoso, Dick Ket cardiopatico col cuore a destra usa la perfezione antica, dùreriana per inquinare di tossici miasmi il realismo magico della sua pittura para-casoratiana, tra Editha Broglio ed Otto Dix: fissando dall'alto il volto macabro e monitorio di scodelle, flaconi, piante grasse e fotografìe. L'Olanda del '900, tra conces¬ sioni al fauvismo e fiabe cattive non è soltanto il mondo incorrotto ed analgesico, calvinista, delle sintonie di Mondrian. Ma l'Olanda oggi? Tenta di rispondere a quest'interrogativo una mostra parallela, che si chiuderà il 17 luglio, sempre al Musée d'An. Moderne di Parigi, titolo altrettanto illuminante: «Dal concetto all'immagine». Fine del concettuale, ritorno alla figura? Non si direbbe, anzi. Non ci sono grandi scoperte, salvo l'inquietante mare verticale di Dibbets, artista già affermato, che sembra rovesciarsi fuor dalla tela. Oppure l'ossessione vangoghiana e rembrandtiana dell'autoritratto che - in linea con la Toorop - porta Akkerman a pescare nel futuro della propria vecchiaia, deformando progressivamente il giovane volto. Per il resto, ideuzze concettuali e cascami astratti. Sarà interessante invece notare, a proposito dei maestri olandesi, come i nostri giovani italiani - che li abbiano o no veduti - debbano molto a questa tradizione «gotica». Quasi degli incunaboli del gusto. Se Leo Gastel ricorda Cadorin e Jan Sluijters fa pensare al divisionismo paonazzo di Rubaldo Merello, qualcosa davvero sembra unire gli scheletrici paesaggi di Thorn Prikker al nostro Forgioli. Ed eccu Andrea Boyer uscire dalVAttesu di Pike Koch, Franco Dugo dalle raggelate atmosfere di Ket, Crocicchi delle venose dame della Toorop, maestra anche - con le sue marmoree Meduse - a Mariani ed altri nipotini citazionisti. Marco Vallora Le inquietanti onde d'un mare verticale in un'altra mostra sugli artisti d'oggi Un autoritratto di Dick Ket e (sopra) le donnacce da trivio di Pyke Koch
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