Slatko «Così mi salvarono quei tre uomini della tv» di Giuseppe Zaccaria

A Mostar una troupe Rai morì per proteggere il bimbo A Mostar una troupe Rai morì per proteggere il bimbo Slafko: «Così mi salvarono quei tre uomini della tv» L'INFERNO DELLA BOSNIA DIETRO LE SPALLE SPALATO DAL NOSTRO INVIATO" Questa è una storia che non c'entra. Non c'entra, dico, con quel che stiamo vivendo in queste settimane, posto che non riguarda i temporali d'estate né il G7, né le faide televisive o i mondiali di calcio. Anzi, a ben guardare è una storia vecchia, visto che si ambienta nella ex Jugoslavia e per protagonista ha un bambino. Senonché, quel bambino da domani ve lo ritroverete nel piatto. Se ascolterete i tg dell'ora di pranzo vi piomberà sul tavolo fra il primo e il secondo, se andrà in onda di sera finirà col disturbare parecchi sonni. Il fatto è che ad appena cinque anni d'età, Slatko Omanovic sembra selezionato per uno spot di «Ho bisogno di te» ed è invece assolutamente, anacronisticamente, rassegnatamente vero. Intorno a due pupillone verdi metterà assieme forse venti chili, esibisce uno sguardo vivo sopra due occhiaie da vecchio e frignando perché al ristorante gli negano un altro piatto di patate fritte viene a ricordarci una cosa del passato. Ricordate di tre giovanotti uccisi in un posto che si chiamava Jugoslavia, dove lutti morivano senza che si capisse perché e le bombe macellavano perché la televisione avesse nuove immagini da trasmettere, senza che alla fine nessuno facesse niente? Bene: in quel posto, in un angolo chiamato Mostar, un giorno tre persone finirono squartate da una granata ed ebbero diritto a due giorni di ufficiale cordoglio, più uno «speciale» del Tgl durante il quale il conduttore non riuscì neanche a ricordare i loro nomi. Slatko ne rammenta uno solo, dice «Marko» come se parlasse di un eroe dei fumetti. Degli altri non ha trattenuto nulla. Parla per fotogrammi: «C'era cinema fuori di casa, poi grande fuoco, palla rossa, rumore, poi niente, mamma vicino a letto, nonna vicina, Marko no». Marko si chiamava Marco Lucchetta, con lui c'erano Dario D'Angelo e Alessandro Ota. Lavoravano per la Rai. Slatko Omanovic è il bambino che la mattina del 28 gennaio, mentre intorno all'ospedale di Mostar Est ricominciava il bombardamento, fu protetto dai loro corpi. Adesso, sei mesi dopo, sta arrivando a Trieste. Ieri lo hanno tirato fuori da Mostar Est assieme con la madre, Sanela, una bella venticinquenne dai denti guasti. Sapete com'è, negli ultimi tempi a Mostar non c'era grande disponibilità di dentisti, come non ce n'era di pediatri, di medici generici, anzi neppure di farmacisti, infermieri, praticoni, guaritori, mammane. Sei mesi dopo, quel che ci viene consegnato dalla morte di tre ragazzi triestini, dopo dichiarazioni e impegni solenni legati alla nobiltà della loro fine, è un piccolo gramo di sofferenza. Domani Slatko sarà mostrato a tutti in una conferenza stampa, simbolicamente servirà a inaugurare un programma. E' il primo di una serie di bambini che verranno accolti e curati a Trieste con l'impegno, i contributi e la me¬ moria della gente che su quei tre giornalisti morti a fine gennaio non ha ancora battuto la stampigliatura «archivio». Ma di questo ci sarà modo di parlare ancora: adesso vorrei raccontarvi del primo incontro con Slatko Omanovic, uscito il nove di luglio dalla Bosnia Erzegovina e atterrato poche ore più tardi in un altro mondo. E' seduto a un tavolo di ristorante, il piccolo e biondo Slatko, con accanto la madre. Tutt'intorno l'organizzazione che l'ha fatto uscire da Mostar, con una trattativa che è stata estenuante fino all'ultimo controllo di frontiera. C'è gente della Rai, un medico, ci sono i funzionari della cooperazione, intervenuti per superare gli ultimi intoppi. C'è lui, il piccolo vecchio, che affronta incerto una bistecca enorme (non ne vedeva da un anno) e meccanicamente sorride a chiunque incroci il suo sguardo. E' un sorriso di difesa, una smorfia automatica, dietro cui è davvero difficile indovinare allegria. Formale e tirato è anche il sorriso della madre, poco più di una ragazza, che pure adesso ha trovato lavoro a Trieste e forse riuscirà anche a ri- vedere il marito, Adis, musulmano come lei, arrestato dai croati un anno e mezzo fa, poi rilasciato ed espulso, a lungo scomparso. «E' in Svezia: mi ha scritto cartolina, mi ha telefonato tre giorni fa...». Slatko mangia e ascolta. A tratti il suo sguardo si fissa sulle patatine poi saie, si perde nell'aria, ritorna. «Dopo che mio marito arrestato noi fuggiti Mostar Est, da parte musulmana», sta raccontando la ragazza. «Niente case, niente acqua, niente luce. Posto solo in cantina, vicino ufficio pulizia.». L'ufficio pulizia era il vecchio ufficio di igiene: lì, poche settimane dopo, sarebbe stato improvvisato il lazzaretto destinato a passare alle cronache di guerra come 1'«ospeda¬ le di Mostar Est». Per Slatko e sua madre il rifugio era una cantina in via Ivan Krndelj numero 32. Lì sotto, trentaquattro adulti e tre bambini. «Come vivere? Non so. Se niente bombe, mia madre fuori a cercare acqua o mangiare, o fuori io. Altri tutti assieme. Primi tempi buoni, perché tutti musulmani, tutti amici, ma poi... Ma poi puzza, sudore, e problema di fare pipì dinanzi altri, e freddo, e vicina che ti ruba scatoletta di carne, e litighi, e botte, e graffi, e bombe, e rumore tutti i giorni, e "tutum, tutum, tutum", e tu che pensi come pazza, e altri pazzi più che te, e aria manca, e vita sembra peggio che morte, e tu come topo, e svegli e dormi e mangi che sempre stessa cosa, stessa cosa in testa, che un altro "tutum" e tu morire e finalmente finito tutto». Ma il bambino, Sanela? «Bambino con altri due piccoli di cantina: giocare, litigare, piangere, poi litigare, poi piangere ancora. Non so. Otto mesi dentro là. Otto mesi meno due a ospedale, vicino Slatko». Due mesi e mezzo, per l'esattezza. La mattina del 28 gennaio per il piccolo Slatko vedere quei tre uomini che entravano per rifugio con una telecamera in mano era stato molto più che un gioco. Qualcosa la ricorda ancora. «Sì, tre uomini arrivati col cinema e con ragazza... bravi... Nutella». Interviene Sanela: «Io in quel momento non ero in rifugio: fuori per cercare cibo, bloccata da bombardamento. Mia madre mi ha raccontato. Ad un certo punto i tre "novinari" salutano ed escono, salgono le scale con interprete bosniaca. Mio bambino li segue, mia madre si accorge e grida...». «Novinar» in serbo-croato significa giornalista: Lucchetta, Ota e D'angelo stanno uscendo con la loro interprete per tornare all'auto blindata, non si sono accorti del piccolo che li sta seguendo come si seguono gli eroi delle favole. Sentono l'urlo della nonna quando sono già all'aperto, si voltano, vedono il piccolo che gli si fa incontro, la vecchia che è giunta affannata in cima alle scale. Il primo boato esplode in quell'attimo esatto. Cosa ricordi, Slatko? «Grande palla rossa, fuoco... rumore...e poi nessuno più. Marko con mano aperta che dice "vai dietro" e quello con cinema che grida a me, e corre, e poi tanto caldo». Sanela abbozza una ricostruzione: «Quei tre hanno visto mio figlio, sono tornati indietro di qualche passo per dirgli di tornare in rifugio, granata scoppiata proprio dietro di loro, e loro avevano giubbetti, e giubbetti salvano Slatko». Strano, quanto immediato a volte si riveli quel miscuglio di sentimenti che poi si definisce eroismo. Era solo una corsa istintiva, quella dei tre ragazzi della Rai, un moto di protezione: difeso da quei giubbetti il piccolo Slatko fu colpito solo da frammenti di asfalto che lo raggiunsero a una tempia. «Due mesi in ospedale, ridotto come piccolo biafrano... e ogni notte brutti sogni con lui che gridava: "C'è fuoco, tanto fuoco, mamma dammi acqua per spegnere"...». Non grida più, adesso, il piccolo sopravvissuto. La madre racconta che per mesi, uscito dall'ospedale, ha continuato ossessivo a disegnare tre uomini, uno «con cinema», e vampate rosse, e auto in lontananza, e soldati. Finché un giorno, di colpo, ha gettato le matite senza volerle riprendere più in mano. Ma adesso forse cambia, adesso forse la morte di quei tre giovanotti acquisterà un senso. Non crede, signora? «Io non so... tutto questo solo grazie a privati... non so cosa fatto Stato italiano...». La discussione si fa difficile, e poi ormai è tardi, Slatko e la mamma devono alzarsi all'alba per prendere il traghetto per Trieste. Buonanotte, signora: porti a letto il suo bambino. Anche perché - ha visto? - mentre noi continuavamo a chiacchierare lui le si è steso in grembo, è partito nuovamente verso il nulla e con lo sguardo perso ha puntato un braccio in aria cominciando a ritmare, piano: «Ta-ta-ta-ta-ta-ta...». Giuseppe Zaccaria Dopo mesi in ospedale è arrivato in Italia «Ricordo fuoco, sangue e i corpi vicino a me» A Mostar una Da sinistra: una veduta di Mostar il giornalista Marco Lucchetta morto a Mostar per salvare Slatko e un'immagine della guerra nella ex Jugoslavia

Persone citate: Alessandro Ota, Dario D'angelo, Lucchetta, Marco Lucchetta, Slatko Omanovic