Galante Garrone il malinconico giacobino di Giulio De Benedetti

Il giurista racconta le sue battaglie: un saggio sul passato per capire meglio la vita politica di oggi Il giurista racconta le sue battaglie: un saggio sul passato per capire meglio la vita politica di oggi Galante Garrone, il malinconico giacobino Tutte le confessioni di un «saltasiepi» del Partito d'Azione «Volevamo rinnovare dalle radici: così vedemmo cadere molte speranze» E1 STATE 1978. Proprio sulle colonne de La Stampa è in corso una polemica singolare fra —I Giorgio Amendola e chi scrive queste note sulle tre culture, la laica, la cattolica, la marxista. Tra i «vinti» della storia Amendola comprendeva suo padre, i Rosselli, Salvemini, Gobetti, La Malfa, Pannunzio, tutta l'area della sinistra democratica. Verso i vincitori usava la semplificazione delle tre forze: comunisti, democrazia cristiana e socialisti. Erano le forze, diciamo, «vincitrici» nella storia della Repubblica, rispetto agli sconfitti, che sarebbero state le forze di minoranza. Maggioranza. Minoranza. Sono tutti termini che in vent'anni hanno cambiato significati e valori e a quella polemica ripensiamo leggendo le pagine di Alessandro Galante Garrone, Il mite giacobino, che sta per uscire nelle librerie per i tipi di Donzelli, con un tocco di alta provocazione intellettuale. Un libro che, dal 25 aprile 1945 fino ai giorni nostri, ripercorre il lungo cammino, tuttora incompiuto, della Repubblica e della società italiana, con tutte le sue contraddizioni, con tutte le sue debolezze, con tutti i suoi limiti, e pure con tutte le sue grandezze. E' la Torino, quella degli esordi di Galante Garrone, nella quale ancora echeggia il messaggio di Piero Gobetti. E' la Torino del Cln Alta Italia e del Partito dAzione. E' la Torino di Norberto Bobbio, di Aldo Garosci, di Franco Venturi, di Vittorio Foa. Il grande sogno di un'altra Italia Nelle parole di Alessandro Galante Garrone, raccolte da Paolo Borgna, si scorge una vena di amarezza e di malinconia. «Coloro che come noi del Partito dAzione - questi scavezzacolli, questi saltasiepi, come spesso venivamo giudicati parlavano di rivoluzione democratica, coloro che durante la Resistenza prefiguravano un'Italia rinnovata alle radici, si scontrarono poi con una realtà che mortificava queste speranze»: è la constatazione dell'antico allievo di Francesco Ruffini, entrato nelle file della magistratura nel 1933. E ancora: «In effetti, non si vollero o poterono colpire le vecchie strutture dello Stato: per amore di quieto vivere, per timore dell'incognito, del "salto nel buio". Lo ribadisco però: doveva finire così perché in realtà gli azionisti e i loro affini erano una minoranza così esigua da essere ben presto ridotta all'impotenza». Galante Garrone è lo storico che ha portato il più decisivo contributo agli studi sul radicalismo italiano. Ed egli serba, della fedele milizia rosselliana, quella punta di "radicalismo" ideale che non confluì nella democrazia del lavoro, che non si Roma, morto a 91 anni identificò in nessuna risuscitazione di schemi vecchi o perenti della nostra lotta politica. Galante Garrone ò scrittore oltre che storico. Si sente che questo libro-confessione è un'opera sofferta, desiderata da molti mesi, sotto l'incalzare di nuovi fenomeni nella vita pubblica. E' la storia di una battaglia politica, nella sua schiettezza, nel suo «pathos», nella sua umanità e civiltà (che è l'umanità e civiltà dell'autore, lo storico di Filippo Buonarroti e degli «eguali»). E' un'indagine articolata, folta di ricordi personali, sull'Italia così come si è sviluppata dalla Resistenza ad oggi. Con vinti e vincitori e i vinti di ieri e i vincitori di oggi. Il «giacobino mite» non si abbandona alla retorica rivoluzionaria: non ci sono intenti declamatori o contemplazioni nostalgiche di un passato di lotte. C'è, piuttosto, la rivendicazione della differenza fra la cultura democratica e la cultura liberale dei prudenti whigs inglesi proprio per quel suo sottrarsi, nei momenti cruciali, al fascino della mediazione, proprio per quel suo configurarsi non come tecnica di governo, ma come modello di società alternativo ed opposto a quello esistente. Il «giacobinismo» di Galante Garrone, dunque, è un'istanza prima di tutto culturale e morale, un progetto ideale sul quale si sarebbero innestate le rivendicazioni di una società moderna. Sono pagine in cui si respira la consapevolezza di non essere riusciti a portare a compimento il sogno di «un'altra Italia». Ma il Paese del quale Galante Garrone disegna il tragitto fino alla crisi di Tangento¬ l'editore che fu direttore generale del Minculpop poli e alle degenerazioni partitocratiche, con l'emergere di un presunto «nuovo», che nuovo non è, ha comunque cambiato la propria fisionomia: «Sono stati anni di grandi conquiste civili: dal divorzio allo Statuto dei lavoratori. Anni osserva il vecchio combattente democratico - in cui lo Stato è cambiato, anche in meglio. E' cambiato in carne e ossa: perché sono cambiati gli uomini e le donne che lo rappresentano, le loro culture, la loro mentalità, perfino il loro linguaggio». Galante Garrone è l'autore di un ritratto affettuoso di Piero Calamandrei, uscito nella stessa collana che aveva già visto quella splendida autobiografia intellettuale che corrisponde a I miei maggiori. I principi etici non sono mutati E in quest'opera che oggi giunge ai lettori noi ritroviamo il tentativo di riferirsi sempre, nonostante il mutare dei tempi, agli stessi criteri, di obbedire agli stessi principi etici. Inseguendoli sempre - lo diceva proprio Calamandrei - come l'arcobaleno che è alla fine della nuvola sull'orizzonte. Pur sapendo che quando si arriverà là dove si credeva fosse l'arcobaleno, ritroveremo soltanto un po' di nebbia: ma l'arcobaleno sarà ancora più in là, e noi continueremo a inseguirlo senza fermarci. L'impegno dei laici in questo senso è uno solo: continuare a inseguire l'arcobaleno, senza fermarsi. Giovanni Spadolini Il giurista Alessandro Galante Garrone vanti a me, di fronte ad un lungo tavolo, assistito da un difensore e presentando un memoriale. Io gli feci le contestazioni e lui rispose. In particolare, insisteva sui rapporti che aveva avuto con alcuni clementi della Resistenza. E questo risultava vero. (...) Intervenne un atto dell'autorità regionale degli Alleati che avocarono a sé il potere di decidere su Valletta. Insomma: ci sottrassero la competenza di influire sulla direzione e l'orientamento della grande azienda. Con la conseguenza che Valletta fu immediatamente reinserito alla testa della Fiat. (...) Come mi sentii quando arrivò la decisione degli Alleati? Beh, mi sentii un po' come Ponzio Pilato, esonerato da un increscioso peso. Proprio perché, alla fine, il mio voto sarebbe stato decisivo. Sì, lo confesso: fui quasi contento. Anche se un po' di disappunto lo ebbi perché era comunque una menomazione, che però non mi sorprese troppo perché già si era cominciato a capire il peso degli Alleati e del governo centrale come l'elemento veramente determinante della situazione. Devo aggiungere - ad onore di Valletta - che, quando nel 1955 Giulio De Benedetti mi invitò a collaborare a La Stampa, io gli dissi sinceramente: «Guardi che a Torino io passo per l'epuratore di Valletta». E questo direttore, sorridendo con l'aria simpaticamente sorniona che ogni tanto assumeva, mi rispose: «Caro Galante, il giorno in cui i conti del giornale andassero in rosso, allora comincerei a preoccuparmi della proprietà; ma sino a quel momento questo fatto che lei mi dichiara non ha per me nessuna importanza; e so che non ce l'ha neanche per Valletta». Qui accanto, da sinistra: Vittorio Valletta e Giulio De Benedetti

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