Dicerie di un Angelo per il soldato Bufalino di Giorgio Calcagno

Dalla guerra allo Strega, carteggio segreto fra lo scrittore e Romano Dalla guerra allo Strega, carteggio segreto fra lo scrittore e Romano Dicerie di un Angelo per il soldato Bufalino Ci ERANO due giovani let™ terati, nel corso allievi ufficiali a Fano nel 1943. Erano nati lo stesso an 1 no, 1920, a un giorno l'uno dall'altro, a 1500 chilometri di distanza. Uno veniva dal Nord manzoniano, l'altro dal Sud di Gorgia, il primo da Mariano Comense, il secondo da Comiso. Li divideva tutto, e tutto li univa. Il primo, figlio di un falegname, era un cattolico macerato da mille dubbi di fede, che frequentava la società universitaria milanese. Il secondo, figlio di un fabbro ferraio, era un miscredente attratto dal problema religioso, che non era mai uscito dal guscio della sua provincia. Il primo si chiamava Angelo Romano, il secondo Gesualdo Bufalino. «Fu lui a cercarmi - ricorda oggi lo scrittore siciliano -. Aveva fatto un piccolo referendum fra i compagni, chiedendo a ciascuno di noi una definizione del barocco. La mia lo impressionò. Venne da me e diventammo amici. Eravamo di due plotoni diversi, ma durante le marce uno dei due raggiungeva l'altro, e andavamo avanti discutendo di letteratura. Poi tiravamo fuori un libro dal tascapane, e camminavamo affiancati, leggendo». Quella educazione così poco militare durò otto mesi. Con la nomina a sottotenente i due presero strade diverse, che il crollo dell'8 settembre, poche settimane dopo, divaricò in modo irreparabile. Non si sarebbero visti mai più. Romano sarebbe diventato un personaggio importante, nel milieu culturale italiano, autore di saggi ben recensiti, promotore, con Pasolini, di Officina, dirigente Rai fino ai più alti vertici, senatore della sinistra indipendente. Bufalino, rientrato dopo dolorose peripezie nella sua isola, sarebbe rimasto fino a 60 anni un oscuro professore di liceo. Ma la loro amicizia, nata su quelle strade di polvere, sarebbe durata, all'insaputa del mondo letterario, tutta la vita. Romano aveva intuito subito in quel siciliano magro l'unghia dello scrittore. Bufalino aveva capito che quel professorino lombardo poteva essere un maestro della critica. Si sentivano attratti l'uno dall'altro, e si completavano nella diversità. E continuarono a scriversi, anche nelle condizioni più difficili dell'Italia occupata. Quelle lettere, singolarmente, sono state conservate, con uguale fedeltà, da entrambi i destinatari. E un piccolo, meritevole editore di Catania, «Il girasole», le riporta oggi alla luce, in un Carteggio di gioventù che risulta una vera scoperta. Non solo per l'alta tensione della scrittura - sembrava quasi che i due si sfidassero per primeggiare sulla pagina - ma per tutti i riferimenti nascosti: che il curatore, Nunzio Zago, è andato a decifrare. Erano lettere, per buona parte, scritte in codice. Il carteggio comincia nel novembre '43, quando i due vivono clandesti¬ ni, sempre a rischio. Romano è potuto riparare in famiglia, Bufalino è costretto a nascondersi dove può, prima in Friuli, poi a Scandiano. Stanno a duecento chilometri di distanza, e si scambiano, insieme con suggerimenti di lettura, informazioni sulla guerra. Ma, per sfuggire alla censura, lo fanno attraverso un gioco di citazioni che soltanto loro possono capire. Il 30 marzo '44 Bufalino chiede a Romano «se si possa visitare Amici, o Rousseau, Toppfer, o Sismondi, là dove riposano in pace». E vorrebbe anche sapere «quale sorte attenderebbe poi il buon visitatore, una volta entrato in casa». Romano capisce che Bufalino gli ha chiesto se si può passare il confine per rifugiarsi in Svizzera, e gli risponde 1' 11 aprile con lo stesso cifrario: «Neanch'io ho informazioni troppo precise sulla fortuna dei nostri scrittori: so soltanto che si è singolarmente legata a un flusso finanziario tuttora in crescenza, data la rarità delle edizioni e la difficoltà di accostare i venditori». Insomma, è pericoloso e caro. Tre settimane dopo gli precisa anche il costo: «Fino a qualche mese fa, il prezzo dei volumi (una copia) era sulle ventimila, ma dev'essere aumentato. Non so se valga la pena di tentar la lettura, se non in extremis». All'amico siciliano prospetta piuttosto scelte alternative: «Per le altre letture, sono diffuse un po' dovunque, in librerie abbastanza accessibili (baite, pascoli montani) ma i tuoi gusti di lettore non li conosco fino al punto da avanzarti nomi e titoli. Sono per lo più scrittori a tesi...». In buon latino, ci si può sempre unire ai gruppi partigiani in montagna, a condizione di condividerne le posizioni ideologiche, molto diverse fra loro. Il rifugiato di Scandiano lascia cadere il progetto, ma vuol sapere dall'amico che cosa fa con il bando della Repubblica di Salò, che ha chiesto il giuramento agli ex ufficiali: «Come ti sei regolato relativamente al "Serment" di cui parla, se bene ricordo, Baudelaire in una strofa di "Reversibilité"? La mia interpretazione è stata negativa». Nessuno fra i censori poteva capire quel linguaggio. Come non poteva capire lo spirito di quella corrispondenza, fra due uomini mossi da un duro rovello interiore, quando fuori tempestava la guerra. Al di là delle formule in cifra per studiare gli spostamenti (che non avverranno) i due ex allievi ufficiali parlano di crisi morali, di rifiuto dell'esistenza, con richiami montaliani («la maglia rotta nella rete», «il male di vivere»); di dubbi sulla fede (Romano) e di incertezze sull'ateismo (Bufalino). Dopo la fine della guerra Romano lavora alla redazione di alcune riviste, L'uomo, Democrazia, legate al mondo cattolico milanese, e insiste con l'amico perché gli mandi qualche scritto; scommette, con sicu¬ rezza, sulle sue qualità. Bufalino è in sanatorio, tende a ritrarsi; solo per non deludere l'antico compagno gli manda qualche pagina sulla Sicilia: che susciterà un'ammirazione tanto convinta quanto effimera in quei primi lettori. La strada al successo letterario, che sembrava aperta, si chiude presto, soprattutto per la ritrosia dell'autore: «La letteratura mi appare sempre più una cosa proibita e ostile, forse non serve alla mia vita», scrive Bufalino dopo il ritorno in Sicilia, anche se confessa di avere in mente un racconto lungo sulla sua esperienza. Romano gliene chiede notizia, sei mesi dopo. «Io so che sarebbe una cosa bellissima, pochi hanno una sensibilità disperatamente viva come la tua». Bufalino lo delude subito: «Del mio racconto sono rimaste sei pagine scritte e molto vento nel cuore. Temo che non farò nulla ormai». Trent'anni dopo, quella «cosa bellissima», che l'amico lombardo aveva presagito, sarà La dicerìa dell'untore, il libro rivelazione. Romano non si dà per vinto. Nel 1956, diventato dirigente della radio, chiede al solitario di Comiso alcune poesie, per poterle trasmettere. Risponde Bufalino: «Io non scrivo versi da molti anni. Le poesie che conservo in un vecchio quaderno mi sembrano, è vero, bellissime, ma solo un giorno l'anno, ed oggi non è quello». La corrispondenza è ormai rallentata, l'incontro, che i due hanno progettato in decine di lettere, non è avvenuto, e non avverrà più, neppure quando sarebbe facilmente possibile. Perché? «C'era una specie di riserva mentale da parte mia confessa Bufalino oggi -, Temevo che non avrei ritrovato lo stesso amico che avevo conosciuto. Ho preferito conservare un ricordo, di quel periodo». In realtà Bufalino si sente allontanato dalla carriera, che ha fatto Romano, corteggiatissimo da tutti gli scrittori italiani, e preferisce tenersi fuori. «Rimpiango i libri che non hai scritto», gli dice in una lettera del 10 febbraio 1976. «Certo io ho avuto un colpo al cuore, quando ho dovuto improvvisamente mettere al posto del ragazzo che ricordavo seduto su un muretto, con un ginocchio grigioverde nel cavo delle mani intrecciate, un anziano signore dai capelli bianchi, che parlava in tv di Officina». La vita li aveva separati fino in fondo. Cinque anni dopo Romano avrebbe sostenuto la Dicerìa dell'untore al Premio Strega, ma neppure in quella occasione Bufalino si sarebbe fatto trovare. «Sono stato il solo finalista a non essere presente, in tutta la storia del premio», dice oggi lo scrittore. All'amico manzonista, il 22 giugno 1981, scrisse altre parcle: «Non sarò io, povero untorello, a spiantare Milano!». E' l'ultima lettera della corrispondenza, il sigillo di un'amicizia tanto straordinaria quanto impossibile. Giorgio Calcagno Vent'anni di lettere senza vedersi: «Al premio mi sostenne ma io non ci andai» Da sinistra: Gesualdo Bufalino; lo scrittore nel 1944; e Angelo Romano, futuro dirigente Rai. in una immagine del 1943