Il teatro ha ucciso l'autore di Ivo Chiesa

Gli italiani non sanno più scrivere? POLEMICA. L'«Independent» ci accusa: apatia, sprechi, chiusura ai giovani Il teatro ha ucciso l'autore Gli italiani non sanno più scrivere? «] ROMA |L teatro italiano sarebbe 1 grasso, viziato e apatico. Lo | dice un autorevole quotiJL\ diano inglese, Tìic Independent, in una corrispondenza da Roma firmata da Della Couling. L'analisi è dura. Per almeno vent'anni, la nostra scena sarebbe stata governata da un sistema che ha provocato soprattutto danni: ha creato un pubblico volubile, ha instillato nei critici un atteggiamento accomodante e, soprattutto, ha posto in primo piano il problema finanziario. Significativamente l'articolo ò introdotto dal titolo: «Recitando con i soldi». Ma c'ò un punto dell'analisi che è forse il più grave di tutti: il sistema teatrale italiano avrebbe cancellato l'autore. Leggiamo: «La drammaturgia italiana è finita con De Filippo, Pirandello e Fo»... «La patria di Pirandello e Dario Fo oggi produce pessime commedie come mai prima»... «In Italia lo Stato butta denaro nel teatro sperimentale, teatro di cultura, o teatro commerciale. Ricco o povero, pieno o vuoto, ogni teatro riceve un congruo sussidio»... «Dove lo Stato controlla i cordoni della borsa, controlla anche le scelte artistiche»... Della Couling aggiunge che esistono ottimi autori (cita Santanelli, Chiti, Brasati, la Maraini, Enzo Moscato e Stefano Reali che lei stessa ha contribuito a far conoscere in Inghilterra), ma nessuno fa nulla per sostenerli e diffonderli. Insomma, un massacro con pochissimi sopravvissuti. Ma le cose stanno veramente così? La Couling ha esagerato, oppure è stata brutalmente realistica? Carmelo Bene non ha dubbi. Anzi, dipendesse da lui, sarebbe ancora più distruttivo. Domanda: «Quale drammaturgo avrebbe ucciso lo Stato?». Aggiunge: «Con drammaturgo intendiamo il copionista? Allora ha fatto bene. Ma non l'ha ucciso lo Stato, l'ho ucciso prima io». Ricorda la propria lotta contro il testo, sottolinea l'inutilità del commediografo. Dice: «Nel presepe di regime che è il teatro, lo scrittore è la scorreggia drammatica di Stato. E se all'estero ridono di noi, non ridono ancora abbastanza. Il nostro ò uno strapacsino tristemente noto. Qui tutti si meravigliano se un prete intelligente e colto fa l'elogio di Carmelo Bene. Si rida pure di noi, ma finiamola con il regime». Giorgio Albortazzi non è mai stato tenero nei confronti del nostro sistema teatrale, tuttavia non esita a definire l'articolo dcìl'Independent «superficiale: sintetizza opinioni correnti ma parziali». E' vero il discorso sulle sovvenzioni, dice l'attore, ma è falso quello sulla drammaturgia, che oltretutto non tiene conto del lavoro di ricerca. «Si scrivono molti testi, in Italia. C'ò una generazione di minimalisti che sembra scrivere come gente che ha subito un knock-down. Ma è gente che cerca di dire cose che la riguardano. Non dobbiamo considerare il teatro un giardino di drammaturgia. L'arte del teatro non è in crisi soltanto in Italia, ma in tutta Europa». Dario Fo, uno dei pochi a cui la Couling dà una patente di vitalità, si rallegra di essere con Pirandello «un classico eternato». Sta provando a Pesaro L'italiana in Algeri di Rossini. In una breve pausa del lavoro medita sul problema. Osserva che «il teatro italiano, pur di andare sul sicuro, ha cancellato il rinnovamento». Responsabili della chiusura sarebbero i teatri stabili, i partiti, gli imprenditori teatrali. «Ci sono i giovani bravi e promettenti - dice ■ ma li relegano in un angolo. Cosa fanno i teatri? Cosa fa il Piccolo? Guardiamo i loro cartelloni: non c'è un minimo segno di rinnovamento». Racconta che sua moglie, Franca Rame, è impegnata in questi giorni in uno stage con quaranta ragazze che provengono dalla Turchia, dalla Germania e da altri Paesi. «L'interesse è grande, ma i giornali ignorano la cosa. All'estero ci sono molti festival riservati ai giovani e ricevono un'attenzione grandissima, bisogna vedere la massa di pubblico e di giornalisti che c'è». Ma il drammaturgo? E' stato davvero ucciso? «Sì, dalla mancanza di una legge per la prosa, che ha permesso i finanziamenti a pioggia e il clientelismo. Per aver detto queste cose sono stato duramente punito dall'Eri, che mi ha negato i suoi teatri. E allora non meravigliamoci se non c'è ricambio. Quando ho cominciato andava molto meglio, il teatro era più libero, ciascuno combatteva con le sue forze. Il teatro che oggi ha sessantanni è venuto alla luce quando la politica non ne aveva ancora capito l'importanza e non aveva interesse a saccheggiarlo». Anche Dacia Maraini è convinta che l'origine dei nostri mali sta nell'inesistenza di una legge. Ma aggiunge che, con i finanziamenti a pioggia, si è esercitata «una censura attraverso l'economia». Non si possono cercare strade nuove perché «ci sono tali tasse che è impossibile farcela». Tuttavia non è completamente .«d'accordo con la Couling: «I drammaturghi ci sono, molti funzionano benissimo. Invece non funzionano le strutture». Con conseguenze gravi sul pubblico: «E' stato male educato, in teatro cercava non le idee ma il divo. Da noi, ormai, gli spettacoli si vendono a scatola chiusa. E' un teatro protetto e maleducato». Soluzioni? «Bisogna fare finalmente la legge e bisogna detassare. L'aiuto dello Stato deve venire prima, non dopo. Dopo, significa spendere quasi tutto in interessi passivi. Il teatro italiano serve ad ingrassare le banche». «Ulndependent non scrive cose del tutto sbagliate», ammette Ivo Chiesa, direttore storico del Teatro di Genova e per molti anni presidente degli Stabili. Aggiunge: «Ha visto più chiaro questa signora da fuori che non molti di noi». Ma Chiesa rifiuta il manicheismo dell'articolo: «Qui non è tutto nero e tutto bianco. Che la politica italiana sia non organica è fuori di dubbio. Ma è un errore dire che lo Stato non ha fatto nulla per i nuovi autori. Anzi ha fatto più degli imprenditori. Infatti ha obbligato gli impresari privati a ospitare nei loro cartelloni il 30 per cento di italiani ancora protetti dal diritto d'autore». Continua: «La crisi ha cause diverse. Ricordiamoci che, da quando esiste il cinema, c'è stato un radicale cambio della creatività e non abbiamo una lingua nazionale. Io ospiterei volentieri un testo di Santanelli. Riconosco che la nostra creatività si è affievolita. Però non mi sento di dare la colpa allo Stato. In questo momento abbiamo autori molto seri». Forse non esiste la saracinesca di cui parla Chiesa, ma esistono gli inciampi, le strozzature, le distorsioni. Lo afferma Ugo Chiti, che ì'Independent pone fra i pochi autori vitali. Un suo testo, Afero cardinale, aveva mosso l'interesse di molti primattori, ma, nel momento in cui trovò la via della scena, si perse nell'agonia del Teatro Regionale Toscano, suo produttore. «Nei miei confronti - dice Chiti - c'è interesse da due anni, ma io ho cominciato nel '71. Da allora ho realizzato 25 spettacoli, con enorme fatica, creando delle microproduzioni. Devo tutto all'interesse della critica e non all'interesse del sistema. Il sistema è venuto dopo, molto dopo». Osvaldo Guerrieri Bene è d'accordo «Presepe di regime, all'estero ridono di noi» Ivo Chiesa: «Io Stato ha aiutato i nuovi» Ugo Chiti: «Devo tutto solo alla critica» fili fi Da sinistra, Dacia Maraini e Dario Fo, per entrambi è necessaria una legge che aiuti i giovani. Sotto, Ivo Chiesa Da sinistra, Carmelo Bene e Giorgio Albertazzi

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