Arafat, un tuffo nell'Intifada di Paolo Guzzanti

Arafat, un tuffo nell'Intifada Folla imparità a Jabaliya, dove sette anni fa nacque la protesta. Lunedì la visita a Gerico Arafat, un tuffo nell'Intifada Ai ragazzi delle pietre: avremo Gerusalemme GAZA DAL NOSTRO INVIATO «Dio è grande e ci farà ancora più grandi con il nostro coraggio e il nostro sangue», gridava ieri pomeriggio alle cinque Yasser Araiat sul palco del campo di Jabaliya. E' stato il momento in cui lui e la folla si sono fusi in un unico urlo, un pathos corale struggente e terribile, con quella dirompente pioggia di consonanti: «Allah-u-akbar... Dio è grande». E le donne del campo, velate, strette ai loro uomini, esplodevano nello «zagarit», il trillo ingoiato che aveva già accompagnato nella storia la battaglia di Algeri e la terribile carneficina giordana di Tali el Zatar. Gli uomini di Hamas e quelli della Jihad, i ragazzi dei gruppi abituati a colpire e sparare, applaudivano sì, ma tiepidamente. E a loro Arafat ha rivolto un'implorazione: «Restate con noi, governiamo insieme questa nostra patria, non rompete l'unità del nostro popolo nel momento in cui ne ha più bisogno». I militanti dell'Intifada, di Hamas e della Jihad ascoltavano con volti duri, riconoscibili proprio per quell'espressione di freddezza: non perdonano ad Arafat di aver stipulato un accordo con il nemico israeliano che consente ai coloni di restare e alle truppe di Gerusalemme di proteggerli. Tuttavia non hanno pronunciato un vero no: si riuniranno, faranno sapere, e sono subito corei nelle case in cui hanno sede le loro organizzazioni. Arafat spera. E quella di ieri è stata per lui una terribile giornata di fatica, fra notabili e stentorei oratori che gli leggevano proclami (lo abbiamo visto sbadigliare vistosamente), corse in macchina e nuvole di polvere, sotto un sole ustionante, circondato da gruppi di alti ufficiali che sfoggiavano divise cariche di gradi, mostrine, insegne, perché la Palestina in queste ore ha scelto uniformi più vicine alla tradizione turca e degli inglesi dei tempi di Lawrence, che degli eserciti moderni dalle divise informali. Lo Stato palestinese quindi corre, si addensa, si struttura, ed ha fretta. La fretta che ha mostrato ieri Arafat chiedendo collaborazione e comprensione a tutti, amici e nemici, a Rabin e agli estremisti; a Peres e agli imprenditori privati il cui più cospicuo rappresentante è quel Nabil Shaath che è il suo più stretto consigliere economico. A tutti ha chiesto comprensione, collaborazione, celerità e buon senso. Ma non ha lesinato emozioni, retorica, parole d'ordine battagliere, espressioni che se prese isolatamente sembrano bellicose, ma che invece fanno parte di una miscela con cui dovrebbero essere soddisfatti tutti, o con cui almeno non lasciare troppo spazio ai nemici interni ed esterni. Arafat ha dormito fino a mezzogiorno prima di affrontare la seconda giornata nella sua patria. E rinunciando a rendere omaggio alla tomba dei padre che si trova nella località di Khan Younis, ha preferito rendere omaggio ai bambini morti nell'Intifada parlando nella scuola del campo-ghetto di Jabaliya: un luogo orrendo in cui vivono dal 1948 circa 70 mila pa- lestinesi, i primi profughi della prima guerra totale che Israele fu costretto a combattere e vincere per non essere distrutto appena nato. I palestinesi che vivono in agglomerati come questo superano il mezzo milione nel complesso e hanno fornito i serbatoi della disperazione, dell'arruolamento giovanile, delle rappresaglie e della miseria. Dai giorni della guerra del Golfo più di 30 mila hanno frattanto perso il posto di lavoro frontaliero che avevano in Israele e le condizioni di vita di questa gente sono ben più tragiche di quelle dei palestinesi della diaspora, che spesso sono benestanti, hanno formato comunità di grande peso e influenzano banche e burocrazie di molti Stati arabi. E' stata dunque una grande giornata costruttiva, ma anche di pianto e di polvere, di bandiere e di confusione, di corse fra strade ortogonali che sembrano quelle di un campo di concentramento. Il corteo del presidente dell'Olp a un certo punto si è perso, si è imbottigliato, non trovava più la strada per uscire intrappolato nel labirinto. Arafat ha comunque tenuto uno straziante discorso alle madri e alle famiglie delle centinaia di ragazzini che hanno lasciato la pelle qui, dando fondo alla sua oratoria tribunizia e di richiamo immediato ai sentimenti popolari. Anche perché è stato il popolo suburbano di questa discarica a cominciare da solo l'Intifada nel dicembre del 1987, che ha avuto la sua ultima giornata sanguinosa il 18 marzo scorso, quando sei giovani caddero uccisi dai reparti speciali dell'esercito d'Israele che non riusciva più né a contenere, né a reprimere una ribellione pulsante e spontanea, organizzata e serpentina, che esponeva davanti al mondo i soldati di Zahal come torturatori e assassini di bambini. Non c'è dubbio che siano state proprio l'Intifada e l'organizzazione di massa creata da Hamas intorno ai luoghi di culto le cause che hanno accelerato la soluzione politica: l'ultima chance prima di tutto per Arafat che, dopo la caduta dei regimi dell'Est e il suo catastrofico schieramento a favore di Saddam durante la guerra del Golfo, era ormai diventato un capo sempre più isolato ed errante. Si è svegliato dunque poco prima di mezzogiorno, come gli capita spesso perché è un animale notturno: Arafat ha consumato una prima colazione a base di formag¬ gio di capra, poi è uscito dalla palazzina bianca dove è alloggiato per recarsi all'Hotel Palestina che è a quattro passi, proprio di fronte. In quell'albergo aveva presieduto una riunione con 18 dei suoi 20 ministri, per affrontare la gravissima situazione finanziaria ed economica dei territori, nel corso della quale aveva attaccato duramente la Banca Mondiale che non si decide a erogare i fondi già stanziati. Poco prima aveva ricevuto, in piena notte, una ventina di giornalisti e alla domanda sui suoi programmi personali per il futuro, ha allargato le braccia per sottolineare l'ovvietà della risposta, dicendo: «Sono tornato a casa per viverci. Le sembra così strano?». E' stata poco più di una battuta, ma molti l'hanno interpretata co¬ me una dichiarazione di intenti politici: sono tornato per restare e per tallonare il processo di pace fino alla conclusione. E così ha annunciato che lunedì farà una puntata a Gerico, che si trova a mezz'ora da Gerusalemme e che è destinata a diventare la capitale dei territori palestinesi. Là terrà una vera riunione formale dei suoi ministri, i quali presteranno giuramento nelle sue mani. Appena si è diffusa questa notizia, subito la città di Gerico è entrata in un clima di vigilia e sono cominciati frenetici i lavori di abbellimento e decorazione per questo nuovo storico evento. Subito dopo Gerico, Arafat tornerà di nuovo a Gaza per raggiungere probabilmente il Cairo in elicottero, e di lì Parigi dove dovrà trattare un secondo round con Rabin e Peres, sotto l'egida dell'Unesco. E' stato proprio Peres, che è il più favorevole tra gli israeliani ad una soluzione in tempi stretti, a far sapere ad Arafat che il cammino è ancora lungo e che devono essere rimossi tre ostacoli: la certezza dei confini, la questione dell'uso delle acque e la dislocazione delle truppe israeliane. E Arafat, che sa bene come Rabin costituisca il principale ostacolo politico, ha mandato a quest'ultimo un accorato messaggio ricordandogli che è giunta l'ora di portare a termine la «pace dei coraggiosi». Arafat chiede espressamente agli israeliani di ritirarsi entro il mese di luglio, così da poter procedere subito alle elezioni che i patti di Washington avevano fissato per il 13 luglio, e quel «subito» è stato inteso come il successivo mese di agosto anche se altri, più realisti, prevedono elezioni per ottobre. Naturalmente, accanto a questi piani praticabili, il presidente dell'Olp non ha mancato di ripetere anche le parole d'ordine nazionali degli ideali irraggiungibili: io sono qui - ha gridato nella tarda mattinata - per costruire uno Stato palestinese unitario che abbia per capitale Gerusalemme». Il richiamo a Gerusalemme scatena ogni volta scroscianti applausi tra la sua folla, urla di consenso e grande emozione. Ma, immediatamente, il colpo di freno: il leader dell'Olp ha subito annunciato che per lui non è vitale mettere piede immediatamente a Gerusalemme, sia pure soltanto per andare a pregare nella moschea di Al-Aqsa, la terza dell'Islam. E poi di nuovo un colpetto di acceleratore: «Se però mi riuscisse di andare a pregare là, certo non rinuncerei». Risposta immediata e fredda di Peres: «Se Arafat vuole andare a pregare nella moschea, noi non abbiamo alcuna intenzione di impedirglielo come per ogni altro musulmano, ma dobbiamo saperlo con ragionevole anticipo per disporre le misure di sicurezza. Finora non ci ha chiesto nulla di simile». Peres pretende quindi che Arafat, per raggiungere Gerusalemme, chieda ed ottenga il permesso dello Stato sovrano d'Israele. Una giornata di grande stress, con pause di noia e altre di reverente omaggio: come quelli degli invalidi dell'Intifada con le loro sedie a rotelle, fra cui il pacifista israeliano Amir Abramson, che ebbe le gambe stroncate in un attentato palestinese; e poi del pacifista israeliano Uri Avneri che sostiene di avergli detto le stesse parole che Arafat dichiara invece di aver pronunciato con la propria bocca: «Ti ricordi, quando eravamo a Beirut sotto le bombe, quando ti assicurai che un giorno ci saremmo riabbracciati nella terra della Palestina liberata». E ancora: lo scrittore e attore Emile Habib e diversi arabi di cittadinanza israeliana, fra cui il viceministro dell'Agricoltura, Walid Tzadik. Parole ora sonanti, ora di circostanza. Domani, dunque, è la giornata di Gerico: giurerà nelle mani del suo presidente il primo governo del futuro Stato di Palestina. Paolo Guzzanti Ma fa anche appello a Hamas e alla Jihad «Governiamo insieme questa nostra patria» w. PIPI sir La prima colazione di Arafat a Gaza Qui sopra, coloni ebrei manifestano a Gerusalemme contro il suo arrivo [FOTO ANSA-AFP-REUTER]