L'esilio di Yasser assetato di patria

Palestina. Voci di attentato: «Fermato un cameraman, stava puntando la pistola» Palestina. Voci di attentato: «Fermato un cameraman, stava puntando la pistola» L'esilio di Yasser assetato di patria O, la patria non è il rapporto fra l'albero e l'ombra. / La patria non è un laccio di sangue, / non è una religione, un dio buono. / La patria è l'esilio, quest'esilio che ti divora». Sono versi di Mahmoud Darwish, «il frutto più fecondo della poesia palestinese». L'Evtucenko dell'Olp che vende milioni di copie dei suoi libri, è un asciutto ragazzo di 54 anni, oggi «non in armonia» con Arafat al quale rimprovera di aver accettato «Gerico-Gaza: subito», poiché, dice, c'è il rischio che la restituzione dei territori «lì cominci e lì finisca». Il 26 di maggio del 1990, Arafat era a Ginevra per denunciare al Consiglio di sicurezza la «criminale repressione dell'Intifada». Mi invitò a mangiare un boccone nella sua suite: «Ti farò conoscere Darwish», promise. In un angolo della suite avevano apparecchiato per dieci, ci sedemmo in quindici. C'è uno sprofluvio di formaggi e di acqua minerale e ancora spiedini di carne, polli alla diavola, frutta. Arafat chiede delle olive e compare d'incanto un cartoccio. Ne mangerà sei, contate, annaffiandole con tre bicchieri di tè bollente condito con un cucchiaino di miele. Ovunque Arafat approdi, quindici minuti dopo l'arrivo in albergo la sua suite prende l'aspetto e sprigiona l'atmosfera di una casa araba. Panciute teiere in perenne, lenta bollitura; vassoietti colmi di dolcini; radioline che, sommesse, irradiano musica araba; tappetini da preghiera e omaccioni in cupa grisaglia stazzonata con la Magnum 44 sotto l'ascella. jf Per Darwish, dico ad Arafat, la Palestina non è l'Andalusia (che nell'immaginario arabo rimanda al paradiso perduto) bensì un «paradiso realizzabile», e per Abu Animar? «In certi momenti della vita, diciamo pure storici, m'assale prepotente il ricordo dell'infanzia. Rivedo la mia casa, in Gerusalemme, a un passo dalla Grande Moschea, risento gli odori del vicolo dove giuocavamo, il pianto dei miei fratelli quando scivolavano su quei ciotoli antichi. Tutto ciò è per me il paradiso perduto poiché quella casa non esiste più e a Gerusalemme non c'è più nessuno che mi aspetti. E tuttavia la Palestina, ch'è poi la mia infanzia, non è soltanto il passato bensì l'avvenire: per i nostri figli. Purché il prezzo del biglietto di ritorno non diventi troppo alto», rispose Arafat. E qui: «La patria è il sapore del caffè / preparato da tua madre. / La patria è il ritorno a casa, / nella sera», recitò in un sussurro Darwish. Ma Arafat ruppe la commozione esclamando: «Io non bevo mai caffè», e tutti ridemmo. Non beve caffè, né liquori. Nel dicembre del 1956, al Cairo, quando Nasser stava trasformando la sconfitta militare in un trionfo politico, una mattina delicatamente calda e limpida avevo appuntamento da «Groppi» con Eddie Pollak, il mitico corrispondente dell'Ansa. «Ti farò conoscere una persona interessante». «Groppi», un ristorante rumeno, piantato in piazza Soliman Pasha, nel cuore del Cairo, aveva un bar invero raffinato. La «persona interessante» era il poeta palestinese Kamal Nasser, che il Mossad avrebbe ucciso il 9 di aprile del 1973 a Beirut perché «uomo di punta» di Settembre Nero. Mentre ci salutavamo irruppe nel bar un ragazzo magro, elegante in un doppiopetto grigioscuro, una immacolata camicia bianca che faceva risaltare il colorito olivastro della sua pelle e i disegni d'una cravatta annodata con cura. «Eccolo il nostro grande eroe», ironizzò affettuoso Kamal Nasser presentandoci il «tenente Mohammed Abdel Rauf Arafat (al Qudwa al Husseini)». Ma allorché soggiunse che Arafat, il quale aveva combattuto «eroicamente» contro gli anglofrancesi e gli israeliani sul Canale, al comando dei suoi fedayn, discendeva dal Muftì di Gerusalemme, Haj Amin al Husseini, quello ribatté secco che «gli Husseini della mia famiglia sono di Gaza e non hanno niente a che spartire con gli Husseini di Gerusalemme». Rifiutò il caffè alla turca, accettando un semplice bicchiere d'acqua. Dopo averlo tracannato d'un fiato: «Ho scritto una poesia, l'ho intitolata "Domani è un altro giorno"», rise allegro. «Domani», come lui stesso ebbe a spiegarmi in seguito, era il futuro della Palestina. Arafat, allora ventisettenne, pronosticava anni Arafat fa il segno della vittoria. Nella foto di fianco un giovane inneggia al leader dell'Olp e nella foto grande sempre Yasser in trionfo to nneggia nfo lta oesia dania, ebbi modo di intervistarlo. Si scusò con me, e abbracciandomi gaio: «Sì, sono io, ma non potevo dirlo a Karameh, avevo bisogno del mistero per colpire la stampa americana». (Un mese dopo Karameh s'era guadagnata la copertina di Time). Terminata l'intervista mi portò in cima alla sua casa-ufficio. Scendeva rapida la sera, lontano, contro il viola dell'orizzonte s'accendevano tante luci. «E' Gerusalemme», sospirò Arafat. «Sono le luci di Gerusalemme. Un giorno andrò a pregare nella Grande Moschea, un giorno Gerusalemme sarà la capitale dello Stato palestinese». Ora che è entrato in Gaza, potrà recarsi a pregare nella Grande Moschea. Ma solo per concessione di Rabin, di Peres. E Gerusalemme è la capitale, oggi, di Israele. Quella sera gli domandai se avesse più scritto poesie. Mi rispose che non scriveva ma leggeva. Mi mostrò un libro, tutto stropicciato, segnato alla pagina 47. Un libro intitolato «Biglietto di ritorno» (Tadhkirat Awda). «Noi ritorneremo, puoi contarci, figlio mio. Noi ritorneremo nel nostro Paese, andremo per le strade a piedi scalzi giacché ci saremo tolte le scarpe così da sentire meglio la nostra terra santa». Mentre traduceva nel suo inglese gutturale, attento, gli occhi gli si riempivano di lacrime. A Beirut, un giorno dell'aprile del 1981, là dove i palestinesi, immemori della strage di Amman nel settembre (nero) del 1970, costruivano un altro Stato nello Stato, Abu Iyad (ucciso dalla polizia segreta di Saddam) che pur gli voleva bene, ammise l'istrionismo di Arafat. «E' un computer umano, si è autoprogrammato in modo da reagire ad ogni situazione o fatto in un attimo, quasi premesse un tasto». Un altro amico, Abu Jihad (ucciso dal Mossad), pur ammettendo la teatralità di Arafat, diceva che «lui vive tutte le nostre emozioni. Non è soltanto un simbolo politico, l'uomo che incarna la Palestina: noi sappiamo e vediamo che vive tutti i nostri sentimenti. Riunisce in una persona, la sua, tutte le speranze, le contraddizioni dei palestinesi: dal notabile ricco al profugo miserabile». Entrando in territorio palestinese, ieri, esattamente ad ore 14,15, Arafat s'è curvato a baciare il suolo. Finiva in quel momento la sua lunga marcia attraverso l'esilio. Per quel po' che lo conosco, debbo pensare che Arafat l'attore, l'istrione sublime, abbia compiuto quel gesto in piena onestà. Così come si scioglie un voto. E le sue lacrime, spesso ricorrenti durante la prima, incasinata ma trionfale giornata in terra palestinese, questa volta, forse, non le avrà comandate il computer. Ma il cuore. Il cuore ostinato del Vecchio Padre che, infine, all'alba, prima di gettarsi, vestito, su di un divano per poche ore di sonno leggero, vigile, ha pregato. Come del resto fa ogni giorno, magari una volta sola, da bravo «credente laico», quale si definisce. Poi è sceso in giardino e sotto gli occhi sbalorditi dei guardaspalle, s'è tolto le scarpe e, scalzo, ha calpestato la sua terra. Com'è scritto in quel libro in titolato «Biglietto di ritorno» «La giustizia e l'equità sono il fondamento del Tuo Trono» (Salmi, 89, 15). «Potete forse esortare gli altri ad essere giù sti trascurando di esserlo voi stessi?» (Corano, II, 40).