SCRIVI PER DURARE di Bruno Quaranta

SCRIVI PER DURARE SCRIVI PER DURARE Contro lo spreco dei talenti, i consigli Anni 30 di Connolly NELLO zoo delle belle lettere di tanto in tanto fa capolino l'enfant prodige. Che non di rado smarrisce, strada facendo, il prodige. Perché tramontano le «speranze» in versi e in prosa? Quale virus le debella? Esiste un vaccino? L'obiettivo, beninteso, non sono i Campi Elisi, traguardo di altre stagioni, vestite di Assoluto (si pensi alle «fatiche immortali» di Cervantes-Don Chisciotte, secondo Miguel De Unamuno). Ma durare almeno dieci stagioni, centoventi mesi, questa sì è un'aspirazione ragionevole. Come fare? Intorno al rèbus negli Anni Trenta orchestrò una serie di saggi sotto forma di amabilissime conversazioni sir Ciryl Connolly, critico e dandy. «Uno dei più tipici esempi - lo ricordava Guglielmo Alberti, un intellettuale plasmato in galatei e raffinatezze d'antan - di quella che fu detta the lost generation, la generazione che quando non si abbandonò, un po' in tutto il mondo, a quella "religione del disinganno" che fu il fascismo, secondo la definizione del Conolly stesso, si ripiegò narcisisticamente su se stessa e chiamò pacifismo il suo disinteressamento dalla cosa pubblica». I nemici dei giovani talenti tornano ora per i tipi di Sellerio (pp. 316, L. 25.000). Chi sono? Il «vittoriano» Connolly non li offre al pubblico ludibrio «sic et simpliciter», senza rete, nudi. Li mette in scena mascherati con abiti botanici, che si divertirà a sbrindellare, a ridicolizzare, a polverizzare. E voilà gli imputati: i cardi bellicosi, ovvero la politica («Nessuno scrittore è diventato mai migliore partecipando a dei comitati o coltivando aspirazioni presidenziali»); i papaveri sonnolenti («i sogni ad occhi aperti, la conversazione mondana, il bere e tutti gli altri narcotici»); l'azzurra borragine («lo squillo di tromba del giornalismo»); la viscida malva (il «successo sociale»); la senape selvatica («il sesso e le sue ossessioni»); le vecce tenaci («i legami dei doveri e della vita familiare»). Una gramigna da cui comin¬ praticavano un giornalismo strettamente imparentato con i piani alti della parola, il giornalismo letterario, poi soppiantato dal giornalismo sociologico. Ebbero in sorte (febeissima sorte) di lavorare in "quel" Corriere della Sera, il fogUo insieme più diffuso e più aristocratico. Un fenomeno irripetibile». Mddini è un giornalista-scrittore (o uno scrittore-giornalista?) tornato al romanzo nel '92, dopo un silenzio narrativo quarantennale, con La casa a NordEst, premio Campiello, un longseller. Il segreto? «Probabilmente è un buon libro, autentico, genuino. Obbedisce, cioè, a un comandamento intimo, è la fruttificazione di un "talento" che in qualche angolo ospitavo. Il talento, modesto o immenso ciare? Se è vero che «primum vivere»: l'obbligo di sbarcare il lunario. Via via che il bolide del consumismo accelera, il bisogno di denaro cresce con progressione geometrica. «Lo scrittore - già ai suoi tempi era costretto ad ammettere Ciryl Connolly - non può più vivere in una casetta in campagna, meditando un dramma storico in versi sciolti...». Parrebbe dunque inevitabile arrendersi ai surrogati remunerativi, capofila il giornalismo, «la più micidiale delle erbacce», secondo il critico inglese, che invita a testimoniare Maugham: «Vi è, in un giornale, un'impersonalità che insensibilmente influenza lo scrittore. Chi scrive molto per la stampa pare che perda la facoltà di vedere le cose come sono. (...). La stampa uccide l'individualità di chi la pratica». Eppure vi è chi, tra i letterati, non esita ad ammettere il suo debito verso il giornalismo. Guido Piovene considerava balsamico frequentare le colonne di quotidiani ed ebdomadari, «un correttivo perpetuo all'astrattezza, alla pigrizia, all'eccesso di fantasia». «Ma Piovene - interviene Sergio Maldini -, come Maiaparte, Buzzati, Emanuelli, era uno scrittore integrale, inossidabile. Firme chp. che sia, è un patrimonio misterioso, naturale: o c'è o non c'è. Per "durare" - cinque, dieci anni, un secolo - è indispensabile. Il presenzialismo, l'adesione all'establishment, i giochi di prestigio, la politica della cultura che prevale sulla cultura possono assicurare la celebrità, l'ingresso nell'enciclopedia, nel manuale. Ma non riusciranno mai a trasformare in valori i falsi valori». Speciale osservatore di «penne verdi» è Giuseppe Pontiggia, premio Selezione Campiello '94 ns sp ergio MaiaEma . con Vite di uomini non illustri (Mondadori), curatore ogni sera (Radiodue) di una rubrica che insegna a «esprimersi meglio»: «Scovare il talento? Non è facile. Le apparenze ingannano. Diceva Chesterton: "Il temperamento artistico è una malattia che affligge soprattutto i dilettanti". Le opere devono essere scandagliate da un ventaglio di lettori (uno non basta): esigenti, impazienti, non complici. Cartine di tornasole indispensabili per separare il grano dal loglio. E per non umiliare il "nuovo", nei cui confronti le resistenze sono sempre intense». Filtri in realtà non severissimi. Esordire non è difficile: «Rispetto a una volta, no. Quando il "visto si stampi" faceva se- guito alla cooptazione nella società letteraria. Oggi è meno semplice, invece, calamitare l'attenzione della critica, ottenere ascolto, essere "identificati" nella folla di titoli che inondano le redazioni». Un talento appena affiorato e subito notato è Margaret Mazzantini, come Pontiggia premio Selezione Campiello '94 con II catino di zinco (Marsilio): «Vi ho lavorato sette anni, sorretta da un'urgenza interiore. Forse il libro attrae perché non è di plastica, non è un atto gratuito, è vero. Come intendo salvaguardare la "vena" che mi viene riconosciuta? Scrivendo unicamente se ne avverto la necessità, l'urgenza, appunto. Fare libri comunque, per occupare un posto in vetrina ogni due, tre anni, no, sarebbe ingannare me stessa e il lettore, che di sicuro capirebbe e mi volterebbe le spalle». I «nemici», va da sé, non assediano solo la prosa. Potrebbero dimenticare la poesia? Secondo Ciryl Connolly è la stessa prosa l'avversaria maggiore della lirica: «Per distinguersi, la poesia dev'essere una doppia distillazione (falla vita e deve andare più in profondità della prosa. Dev'essere come il brandy paragonato al vino, altrimenti i suoi consumatori andranno a cercare la loro razione di poesia nei racconti e nei romanzi». Di diverso parere Mario Luzi, che ha da poco «varato» Il viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (Garzanti). Ritiene che brandy e vino negli inchiostri novecenteschi si mescolino: «I confini sono labili. E' andata manifestandosi una lingua magmatica... Il segno distintivo è la temperatura». L'alta, la cupa fiamma della parola: «Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della tua significazione (...) / però non separarti / da me, non arrivare, / ti prego, a quel celestiale appuntamento / da sola, senza il caldo di me...». Ma che sia parola. Non bisticcio o pasticcio di sillabe, che non significano, non mordono, non lasciano orma. Invocare per loro la forza del cestino è doveroso. Meglio: è un atto di misericordia. Luzi, Pontiggia, Maldini eMazzanlini: no all'effìmero Bruno Quaranta