il felice esordio di Meldini

77 felice esordio di Meldini 77 felice esordio di Meldini I. AVVOCATA delle yB vertigini», che dà ✓ titolo al primo romanzo di Piero Meldini, è una beata Isabetta vissuta e venerata a Rimini: donna - raccontano le pie cronache - di lussuria pari alla bellezza fino a quando, per un inspiegabile impulso, forse un improvviso disgusto di sé, tentò di gettarsi da un campanile. Ma fu bloccata e salvata da un accesso di vertigini. Da allora intraprese una vita di santità, adoperandosi a intercedere per gli stordimenti meno provvidenziali dei suoi devoti. Su questa figura indaga amorevolmente da anni il professor Dominici, che vorrebbe chiarire le ragioni del mancato suicidio e la nascita di una vocazione. Uomo di vita solitaria e rattrappita, l'agiografo proprio dalla sua incredulità religiosa si sente chiamato a fare chiarezza nel percorso dubitoso della Grazia, a sollecitare dagli antichi manoscritti e dalla polvere dei secoli una risposta: che dia conto magari, in ultima istanza, dei suoi capogiri, della sua tremebonda attrazione per il vuoto. Anche Meldini è esperto di biblioteche - dirige la GambaJunghiana di Rimini - e ci accompagna dunque con famigliarità nell'impresa del suo personaggio, sciogliendo l'erudizione in un racconto dove la luce dorata dell'estate alle finestre sembra sposarsi e opacizzarsi nelle fibre degli arazzi, nei rivestimenti dei codici. Il documento cercato da Dominici salta fuori, alla fine, suggerito dal bibliotecario Manara. Sono pagine cifrate che, una volta messe in chiaro, forniscono trascurabili varianti sulla vita della santa. Se non fosse che dietro quelle righe si nasconde un altro testo che non ha alcun rapporto con Isabetta. Dalla «cifratura al quadrato» emerge infatti una scrittura apocalittica che predice allo scopritore una serie di eventi inquietanti conclusi da un omicidio, perpetrato dalla sua stessa mano. Questo scarto improvviso, che delude le nostre attese mentre ne stimola di nuove (i segreti di Isabetta e l'avverarsi del vaticinio) è il nodo vero del romanzo che, dal punto di vista della fluidità narrativa e stilistica, sembra a questo punto scricchiolare. Ma uno scrittore che si rivela così padrone della sua materia merita ulteriori verifi- volta in volta il romanzo nero, quello d'avventura e quello di spionaggio - che in tanta profusione di bravura si poteva vedere un «omaggio» a qualche venerato maestro: Hammett, Queneau, Chandler o Conrad. Ma qui, in quest'ultimo e di nuovo stupefacente Noi tre, anche questa parvenza di giustificazione viene meno e ci si deve misurare con la pura e gratuita letterarietà. I tre del titolo sono - questa almeno è una delle possibili ipotesi un personaggio che dice «io» (solo molto più avanti sapremo che si chiama DeMilo), vive con un animale di razza imprecisata di nome Titov e ha a che fare con satelliti artificiali «destinati a tracciare le mappe dei fondi marini, misurare la forza delle onde, la deriva delle zolle e la direzione dei venti»; un «polytechnicien astigmatico, quarantanove anni giovedì scorso, specializzato nei motori in ceramica» che si chiama Louis Meyer; e, naturalmente, una donna, giovane, bella, «gran massa di capelli rossi, pelliccia fuori stagione della stessa tonalità». A legarli nell'immancabile triangolo provvede, come si conviene, il caso. E che caso. La prima volta è un incendio: Meyer vede la rossa che armeggia sul bordo dell'autostrada attorno a una Mercedes gialla che sta bruciando e di lì a poco esplode. La salva e le dà un passaggio fino a Marsiglia, ma lei è silenziosa, scostante, non dice nemmeno come si chiama. La seconda è un terremoto, e non uno qualunque: un sisma di magnitudo 7,9 della scala Richter che devasta Marsiglia e coglie casualmente Meyer e quella che si è rassegnato n a chiamare Mercedes \ dentro lo stesso ascensore. Altro salf vataggio, altro e più complicato ma ugualmente silenzioso viaggio fino a Parigi, con sosta infruttuosa in un alberghetto di provincia. La terza e decisiva, una spedizione spaziale in cui si trovano coinvolti BRAVO e sconcertante: da quando ha cominciato a pubblicare libri, tutti i giudizi su Jean Echenoz, depurati da eufemismi e amplificazioni, si riducono a questi due aggettivi. Nessuno, neanche il critico più severo, se la sente di lesinare la propria ammirazione a uno scrittore che offre con schiva parsimonia - cinque romanzi in quindici anni! impeccabili prove di virtuosismo stilistico e compositivo. Ma nessuno, neanche il lettore più disinvolto, riesce a celare un certo disagio di fronte alle sue perfette macchine narrative che hanno la particolarità di funzionare rigorosamente a vuoto e di esibire con provocatoria impudenza la loro gioiosa inutilità. Nei romanzi precedenti - Cherokee, La spedizione malese e il più recente Lac, che, salvo errore, in Italia non ha trovato editore era così esplicito l'incardinamento in un genere - di L'avvocata delle vertigini» Piero Meldini esordisce, con sa bene perfino Dominici che, rammentando le vertigini tutte laiche che accompagnarono un suo amore giovanile, le identifica con lo «scuotimento totale che dà la felicità». Cerco di entrare nel romanzo con l'attitudine di Dominici che si confronta con le carte cifrate di Isabetta, ma non con la stessa fatica. Perché, a non lasciarsi intrigare fino in fondo, L'avvocata delle vertigini si legge con gusto veloce. Le storie intrecciano candore agiografico, giallo esistenziale, speculazione religiosa. La lingua non mostra fiacchezza e concede nitidi prelievi: «Dal chiostro giungeva un profumo pingue ed ecclesiale di rose morte»; «Nel cielo smaltato sfreccio una rondine, lanciando un sibilo sprezzante»; mentre si prepara un temporale, «si comandavano, tra le nuvole, esecuzioni sommarie»; sui colori dell'autunno «un sole antiquario spennellava un'uniforme patina dorata»... Si condonano, alla fine, le riserve su qualche figura mortificata a «flatus vocis», sul passaggio un poco criptico tra le vertigini di Isabetta e quelle di monsignor vescovo. Averne, di questi libri, di questi esordi. che. Perché è vero che l'enigma storico-agiografico sembra sfumare e perdersi nel racconto giallo: le predizioni si compiono puntualmente e ci scappa il morto (una giovane donna strangolata), si trova il vero assassino che riusciamo per tempo a intuire e del quale ha ragione, più che la solerzia di un giudice, la sapienza umana e teologica di un vescovo. Si tratta di un vescovo-detective che, pur sentendosi vecchio da morire, non rinuncia a interrogare Dio per stanarlo dal suo silenzio: tace, questo Dio, sul nesso capzioso di necessità e libertà, sulla potenza tenebrosa del Male, sui limiti della sua stessa fragilità. Per lui, la scoperta di un mediocre assassino è il corollario di una indagine vertiginosa che non ha fine neanche con la morte: «Nel giorno della collera squarciato da Davide e dalla Sibilla era solo, e solo andava, nudo e piagato, allo scontro». Quasi anticipando le parole di Bernanos morente: «E adesso, a noi due». In quest'ultima parte del romanzo, il tono si rialza, recupera le premesse e le intuizioni che si riferivano alla beata e trascurata Isabetta. Se è compito dei santi mediare tra l'uomo e Dio, introdurre alla sua presenza, l'avvocata delle vertigini diventa allora battistrada del Dio delle vertigini. Quelle procurate dalla sua assenza ma anche forse l'episodio del campanile insegna - dalla sua pienezza. Lo n Lorenzo Mondo Piero Meldini L'avvocata delle vertigini Adelphi pp. 123. L 20.000

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