Camera la «guerra» dei burocrati di Filippo Ceccarelli

Camera, la «guerra» dei burocrati Camera, la «guerra» dei burocrati E un sindacalista diventa segretario generale Transatlantico, per rapide, indaffarate comparse. Robusto, sguardo fintamente rassegnato dietro grandi lenti, passo da camminatore di montagna e testa bassa da coltivatore. Per un decennio Zampini ha puntato alla poltrona che fu in origine (1907) del giolittiano Camillo Montalcini e poi di figure a loro modo prestigiose di quella particolarissima burocrazia istituzionale di derivazione più o meno massonica, più o meno indipendente, più o meno prona al potere politico del momento: Rossi Merighi (che durante la Rsi si rifiutò di trasferirsi a Venezia), i due Cosentino (padre Ubaldo e figlio Francesco), Antonio Maccanico. Una poltrona che Zampini ha ricercato con fredda passione e cocciuto proposito, ai limiti dell'altezzosità, quasi a dimostrare forse prima di tutto a se stesso che poteva farcela senza eccessive smancerie diplomatiche, ine¬ Il neo-segretario della Camera Mauro Zampini e, a lato, Irene Pivetti ro posto, dal primo luglio, con un incarico che non avrà più scadenza quinquennale, quello stesso consigliere caposervizio che negli Anni Ottanta, non solo come sindacalista interno, ha dato filo da torcere alla presidente lotti oltre che ad almeno un paio di segretari (aggiunti compresi). Dunque, una piccola rivoluzione. Entrato a Montecitorio nel 1969, 54 anni ben portati, Zampini ha lavorato presso le commissioni Interno, Difesa e Affari Costituzionali prima di ottenere la responsabilità del Personale, vero ricettacolo parlamentare di raccomandazioni e affini, dove ha contribuito alla bonifica dei concorsi. E' trentino, nipote di Flaminio Piccoli, seppure di simpatie vetero-pattiste. Un rinnovatore moderato, si potrebbe definirlo, curioso e senza troppi pregiudizi, a sfumare verso un accorto progressismo, esistenziale. Non di rado lo s'incontrava in vitabili papocchi alla romana e insidiosi trabocchetti di palazzo. Anche per questo, ora che è segretario, c'è da aspettarsi una fitta aneddotica tutta rigorismi, moralismi e decisionismi. In realtà, fatta salva una buona dose di personale (e provvidenzialmente realistico) giansenismo sui principi, è probabile che la Pivetti - come d'altra parte quasi tutti gli altri gruppi, pds compreso - l'abbiano scelto proprio per dare a Montecitorio quel che si dice una bella aggiustata. E soprattutto dal punto di vista dell'efficienza e del decoro morale che tra una magagna denunciata sulle forniture, una macchia a proposito delle manutenzioni, un vizietto sui collaudi, un difettino agli impianti di amplificazione (non funzionanti), un sospettuccio sull'acquisizione in leasing di un palazzo del Banco di Napoli, insomma questa dignità etica prima ancora che istituzionale da tempo s'era fatta molto, ma molto precaria. Né la direzione bicefala, l'abbinata di vertice Marra-Traversa - a giustificare la quale furono a suo tempo invocate persino le virtù del Parlamento francese aveva contribuito a rendere particolarmente brillante l'immagine di Montecitorio. Fin dall'inizio i due avevano cominciato a farsi i dispetti, vivendo quella loro condizione di semi-parità in una sconfitta da trasformare in rivincita. Dopo cinque anni, e una filastrocca interminabile di toto-nomine, grandi manovre, paci armate e quant'altro, la rivalità aveva raggiunto le vette di comiche di Totò e Peppino in Chi si ferma è perduto. Fino all'ultimo sia Marra che Traversa, con rispettive fazioni di «donatiani» e «silviani», aspiravano alla conferma. Invece, alla fine, è arrivato Zampini. Carattere pessimo, quindi ottimo. Filippo Ceccarelli

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