L'abito?E Cosa nostra di Francesco La Licata

L'abito? ¥ Cosa nostra L'abito? ¥ Cosa nostra Ma i veri boss snobbano l'eleganza IL LOOK DELLA MAFIA AROMA H, la moda! Quanti sacrifici per la cura del look. Quante rapine, almeno agli inizi della carriera, per poter permettersi di entrare in uno di quei bei negozi che ti fanno girare la testa. Quanti rischi per riuscire ad accostarsi alle grandi firme, anche soltanto per varcare la soglia di un «Emporio Armani». Poi le cose cambiano, si sa. Il picciotto diventa adulto, si fa importante. E, dunque, mafioso. O, almeno, crede di esser diventato boss. Già, perché i veri capi sono pochi e più contano e meno si specchiano sulle vetrine multicolori dei «salotti» cittadini. Il resto è «pura rappresentazione» di un cliché abusato ed omologabile al generale regresso del genere umano, più che alla decadenza di Cosa nostra. Ci sono mafiosi che amano l'eleganza, boss particolarmente attenti all'abbigliamento. Questa è una dote «innata» nel singolo personaggio, che nulla ha che fare col ruolo occupato nell'organizzazione o con 1'«essere mafioso». La maggior parte dei padrini, infatti, spende un mucchio di soldi per ottenere il risultato di apparire semplicemente goffa e ridicola. Eppu- re spendono, i boss. Spendono tanto, ma sbagliano gli abbinamenti, naufragano in un mare di gialloarancione pagato a peso d'oro perché spalmato su «cachemire cento pè cento» o «vera seta autentica». Il boss di razza - tranne poche eccezioni - veste sobrio ed è poco appariscente. Il saggio sa che i colori attirano le mosche e per i poliziotti (le mosche appunto) un abito più è costoso e più li incuriosisce. Il vecchio Genco Russo passava le giornate seduto su una sedia impagliata, sotto un grande carrubo. Indossava una camicia bianca, le antiche camicie di cotone, un pantalone scuro, niente cravatta e un Borsalino Uso sulla testa. E non aveva gusti diversi don Paolino Boutade, il patriarca di Santa Maria di Gesù. Eppure non mancavano certo le possibilità economiche al vecchio capomafia, tutto preso tra la politica e la Cosa Nostra. Ma a lui bastava il vestito scuro, gabardine o velluto, «tagliato» dal sarto della borgata. Tanta sobrietà fu ereditata da Stefano, il primogenito di don Paolino. Anzi, il giovane rampollo riuscì ad accoppiarla con una certa ricercatezza mai volgare. Tanto che il popolo di Cosa Nostra, colpito dallo «stile» del boss, lo soprannominò «il principe». Stessa sorte non ebbe il fratello minore, Giovanni, giudicato «troppo moderno». Era solo Stefano, «il principe». E lui era cosciente del proprio carisma. Fino a ricercare sempre, in qualunque campo, una sua originalità. I boss della Kalsa mostravano il famigerato Rolex d'oro? Lui sceglieva il classico «Vacheron», accoppiato alla penna della stessa marca. Questa parure indossava quando lo uccisero. Era la sera del suo quarantatreesimo compleanno ed aveva appena brindato con la moglie e i figli. Cristai? Dom Perignon? No, quelli erano gli champagne dei giovani d'assalto. Lui beveva Cliquot, «carta oro» naturalmente. Quando il medico legale contò i «buchi» sul suo corpo, notò che don Stefano per la sua festa aveva scelto un principe di Galles di un marron tanto tenue quanto insolito. Un altro «elegantone» per vocazione è Buscetta. E' ormai un mito il suo blazer blu sui pantaloni grigi. Anche don Masino tiene molto al look. Nel suo caso ha giocato un ruolo determinante la passione per le donne. Ci fu un momento, nella Palermo degli Anni 60, che il «Buscetta-style» andò per la maggiore. Tanto da generare un deprecabile quanto malriuscito processo imitativo. Vennero fuori così certe giacche chiare inguardabili e le famose camicie di seta: un autentico boomerang per i boss, visto che finirono per costituire un vero e proprio marchio di riconoscimento della mafiosità. Come la Bmw, per lungo tempo l'auto «testimonial» di Cosa Nostra. E come certe bluse a righe verticali e variopinte con l'ancora sul taschino sinistro, «divisa» preferita dai sigarettai dell'Arenella, di Sant'Erasmo o della Kalsa spesso riuniti ad un tavolo àeW'Ingrasciata, premiata trattoria di via Tiro a segno, Palermo. Ma se in Sicilia la passione per la moda ha portato al boom dei negozi d'abbigliamento e delle boutiques, negli Stati Uniti non è andata diversamente. Prendete John Gotti, ex capo della «famiglia» Gambino di New York. Primo piano del suo faccione su «Time» e quando si presenta al processo - si legge su Gangland di Howard Blum - «sedeva nell'aula con il suo abito De Lisi da duemila dollari, senza un capello argenteo fuori posto; e un paio di occhiali bifocali cerchiati d'oro sulla punta del naso...». Decadenza dei tempi? No, Gotti era così anche da ragazzo. Meno affinato e quindi più kitsch. Quando si presentò al suo primo capo, rac conta ancora Blum, era conciato così: «Camicia viola acceso aperta fino alla vita, braghe attillate co me quelle di una ragazza, capelli che ricadevano sulla fronte con un ciuffo impomatato». Ma quello era l'American Style. Francesco La Licata Russo indossava camicie bianche Don Masino puntava sui vestiti per piacere alle donne Un abito di Dolce e Gabbana. Da sinistra Buscetta, Gotti e Ri ina

Luoghi citati: Galles, New York, Palermo, Sicilia, Stati Uniti