Battoli i sonetti del moralista
La sua arte plebea e aristocratica nelle sale di Palazzo Ricci a Macerata Battoli, i sonetti del moralista «Colui che riuscì a non imitare Picasso» La sua arte plebea e aristocratica nelle sale di Palazzo Ricci a Macerata EMACERATA RANO nati a quattro giorni di distanza. Roberto Longhi il 28 dicembre 1890, Amerigo Bartoli Natinguerra il 24 dicembre. Strano destino ironico, quel doppio cognome, che ogni tanto Bartoli si ricordava di mettere in scena, perché faceva nobilastro. Nat-in-guerra, ma «con il Bambin Gesù del 1890». Così si sprecavano le battute: «Natinguerra morto in pace». Longhi non si capacitava che fosse arrivato primo: «ma che mai avrà fatto - si rodeva - in quei quattro giorni avanti che ci venissi anch'io?». Così si cementavano le amicizie con le battute. Il che non impediva di dire, al critico mai troppo tenero: «Di questi instancabili prodigi di verità il Bartoli è certamente il primo pittore che sia in Italia». Non senza alludere, con la consueta e poco innocente sottigliezza, «a esplicite e significanti rinunzie, non diciamo abdicazioni». Ma abdicazioni perché? Perché troppo dotato di un'intelligente pigrizia dell'intelligenza o bloccato da un criticismo che lo annichiliva? Certo, a guardare la distesa retrospettiva che con inusuale competenza e amore Giuseppe Appella dedica a Bartoli sino al 30 settembre in Palazzo Ricci a Macerata, s'insinua quell'insolente dubbio, che lo perseguitò per l'esistenza. Bartoli più intelligente della sua stessa pittura? Era per leggenda un battutisla così fertile e folgorante, che dovette combattere a vita - talento precocissimo - l'accusa di essersi «inventato» pittore, per far concorrenza a Maccari o dispetto all'«intimo nemico» Cardarelli. Non faremo l'errore di preferirgli dunque il corteggiatissimo vignettista, o accusarlo ancora di «illustrazionismo» (Oppo); giustamente Appella, evocando il chma della Ronda, allude nel catalogo Electa a una «sorta di dipingere-raccontando, di narrazione in progress», che distorna il rischio di letterarietà dalla singola tela, per distribuirlo e neutralizzarlo in quella specie di svagata, pigra ma anche attivissima solerzia di macinatore di sguardi sul mondo. Ed è difficile non percepire immediatamente la sua verve inesauribile di colorista superbo (nella doppia accezione), sia pure mortificata subito entro quella sua istintiva negligenza del tono, dandysticamente trasteverina: riserbo plebeo e insieme aristocratico della retorica squillante del colore, rude e vernacolare come una poesia del Belli. Attutendo ogni pennellata in quella melma pastosa di «grigiastro buzzurro», per dirla con l'amico Baldini, che affumicava come uno smog morale la papalina capitale, in cui era giunto innocente da Terni, sorprendendosi che al posto di circhi massimi e giulii cesari s'inciampasse in prelati in lambretta e tram sferraglianti tra i Fori Imperiali. Eppure come non avvertire subito anche questo dissipato eclettismo, che lega ogni tela, disgiungendola? Navigatore ondivago del colore, il sedentario Bartoli di una sola cosa si preoccupava, nei suoi stenti eppure stentorei, quasi baritonali exploit di guardatore dell'esistenza: d'esser catturato dall'atmosfera, dalle ore, dal romanzo mancato. Ogni finestrella di tela, un mondo a sé, un motto. Istanti condensati. Bordini di Fregene, filamenti di Colosseo, frammentali di nature morte appena appena neo-chardiniani. Non si pensi però Bartoli si lasciasse sedurre, influenzare dai suoi pressoché avversari: per carità. L'unico premio di cui andava snobisticamente fiero era quello Al Resistenzialista, nel senso di «colui che aveva saputo resistere alle tentazioni di imitare Picasso», come lo insignì Sandro De Feo. Semplicemente cantava le sue canzoni a olio (qualcuno ha parlato di «sonetti cromatici»), come si passa da Schumann a Wolf, a Tosti. Bartoli passava accanto: come lo descrive un testimone ai funerali dei suoi più intoccabili amici, Barilli e Savinio: «Come un cane da pastore camminava di lato, guardando gli altri procedere e come procedevano». Così con la pittura: accanto. Corottiano innanzitutto. Ma poteva essere sfrontatamente morandiano quando passeggiava pittoricamente per le Colline umbre, più Carrà quando stava in Versilia, attraversare casa Scipione quando ritraeva La Governante del Fotografo, farsi più sbambagiato e candeloso epour cause raccontando la figlia di Spadini, per scoprirsi più sofficesco accostandosi ai cipressi carducciani di Cortona, o cedere addirittura agli stupori di Donghi onde raffigurare la figlia dell'amico Saffi: ricordarsi persino di Goya per evocare la festa popolare di una mongolfiera. E non manca nemmeno il periodo de chirichiano, adagiandosi la sua nervosa ironia entro polposi teatrini barocchi di cacciagione opima, quando i due condividono lo stesso studio in via d'Alibert. Si arresta, a Grottarossa, soltanto di fronte alle tentazioni, sulla via di perdizione, di Morlotti: quando il colore disfa le forme. Un precetto se lo ripeteva e ben chiaro: «Io penso che il mondo vada benissimo come il Padre Eterno lo ha fatto. Non credo perciò che il pittore possa prendersi tanta libertà da alterarlo creandone un altro del tutto irriconoscibile». Le sue vignette più feroci sono proprio quelle contro l'arte moderna, contro i critici d la page: «Io sono un critico d'arpe», e infatti non sa riconoscere la chitarra cubista. «Fai il Van Gogh? Bravo, ti sei tagliato l'orecchio?» Un Rothko perfettamente imitato sulla parete, e il pittore invidioso: «Beato lui!». De Chirico-Don Rodrigo che spara a una colomba di Braque. Ma anche il grande pittore che ha per modella una montagna di rotelle, mattoni, righelli e nasi storti, e soavemente riproduce sulla tela una bellissima dama dai contorni pompier. Lo sciocchezzaio della contemporaneità. Due critici cospiratori, guatando collega: «Ha letto pochi libri, ma in compenso non capisce nulla». Forse era un moralista anche nella pittura, ma non lo dava a vedere. Preferiva dipingere l'understatement, il nulla di fatto, lasciando aria sufficiente perché il quadro si compisse da sé. Ancora una volta ha ragione Longhi: «Un distacco bellissimo, a cuor secco, come una lontananza di Velàzquez». Ecco: Bartoli porta quelli sfondi in primo piano, azzittendo la retorica del soggetto, «pathos scabro e tutto rovente, carattere difficoltoso e allarmato», come assicura De Libero. O diventa sensitivissimo ritrattista: Cardarelli di schiena, montuosità di malumori; la smorfia bisbetica di Carrà; Cecchi giovane d'intelligenza, mentre Baròli ne è come ustionato. Non è misericordioso nemmeno con sé stesso: come un bacherozzo nudo si voltola sull'argine, Narciso di lardo: lo guata da lontano una Susanna che ha scambiato il proprio ruolo. Lapidario nelle battute, pigrissimo, stava in villeggiatura, quanto a pittura. Inseparabile da Cardarelli, litigavano come una coppia. Non si parlavano per mesi. «Non sono così ricco da potermi permettere un nano» bofonchiava Cardarelli, colpendolo vilmente nel suo punto debole: un metro e cinquanta di genio e perfidia. «Ho rispetto per lui perché è il maggiore dei poeti morenti». E del Greco, quale definizione più fulminante? «Ha il colore del sapore di carciofi crudi. Dipinge persone riflesse nelle bottiglie». Con la pittura no, Bartoli non voleva ulcerare. Marco Vallora Tre opere di Amerigo Bartoli in mostra a Macerata Qui sopra «Foro Romano» (olio su tavola, 1923), in alto «Le comari» (olio su tavola, 1955), a destra «Il Signor Narciso: "Che lingua!!"» ( 1938)
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