TANGENTI URBI ET ORBI di Anacleto Verrecchia

TANGENTI, URBI ET ORBI TANGENTI, URBI ET ORBI La corruzione politica nell'antica Roma e i processi di Atene: un teatro di brogli e liti, appalti e bustarelle, ancor più di oggi IUCIANO Perelli, una delle teste forti della nostra cultura classica, ha l'aspetto ascetico e somiglia a Pio XII. Ma attenzione, perché sotto i suoi modi signorili e distaccati egli nasconde un carattere di ferro e un'incredibile indole combattiva. E' un anticonformista per natura, che ama fare stecca nel coro o nuotare controcorrente come i salmoni. Ne abbiamo la riprova nel suo ultimo libro, pubblicato dalla Bur con il titolo La corruzione politica nell'antica Roma. L'autore suona su un registro antico, ma la sua musica scende nell'orecchio come se fosse stata composta ieri. E ne spiega il motivo, strizzando l'occhio a Tangentopoli: «La corruzione politica e la connessione tra politica e denaro non è un fenomeno solo dei nostri giorni, ma è sempre esistito nel corso dei millenni, in varie forme e con varia gravità. Nell'antica Roma, anche prima di arrivare al Basso Impero, diventato proverbiale come regno della corruzione, il fenomeno ebbe dimensioni almeno dieci volte superiori a quelle dei tempi nostri». Così Perelli, con documenti alla mano e avvalendosi della sua formidabile cultura, demolisce il mito retorico, ormai bimillenario, che ci presenta gli antichi romani come uomini pieni di virtù, integerrimi, disinteressati e pensosi solo del bene della patria. Non si salvano neppure Catone il Censore e Catone Uticense, tanto esaltato da Dante. Il primo, che pure si era fatto promotore di una campagna moralizzatrice all'inizio del II secolo a.C, non doveva essere proprio uno stinco di santo, se è vero che contro di lui furono intentati almeno quarantaquattro processi. Il secondo, che è passato alla storia come il custode della morale, autorizzò i nobili alla raccolta di fondi per corrompere gli elettori e per impedire l'elezione di Cesare al consolato. Peggio ancora, fece passare un decreto che concedeva al nipote Bruto, il preteso eroe della libertà, di violare la legge sugli interessi. Così l'assas¬ HA tutti gli ingredienti del thriller poliziesco: suspense, ferocia, astuzia, tradimenti. Ma è una storia vera. E a guardar bene qualcosa la differenzia dalle trame confezionate per lo schermo: l'azione più incerta, le frustrazioni, le rivalità burocratiche, le attese, la vittoria che arriva con la pazienza e non con il duello finale. Così si svolge Gangland, ricostruzione minuziosa, sospinta da un agile ritmo, dove si narra come John Gotti, boss della Famiglia Gambino, mafioso sedicente invincibile, comparso con il sorriso sfottente perfino sulla copertina di Time, è stato alla fine incastrato dall'Fbi. L'autore è un giornalista investigativo, Howard Blum, che ha interpellato buoni e cattivi, agenti (con il permesso del Bureau) e procuratori, delinquenti e spie: 108 interviste, una montagna di documenti, registrazioni di microfoni nascosti. Ha sentito perfino uno dei killer ( 19 uccisioni) che gli ha detto senza troppi complimenti: «Molti di voi giornalisti sono peggio di me». Il risultato è un libro che guarda dentro la mafia newyorkese, ma svela anche ombre nell'apparato che la stringe d'assedio. Blum descrive soprattutto una caccia. Sono gli agguati e le trappole che la CI6, squadra di agenti speciali, guidata da Brace Mouw, «pipa in bocca e 95 chili di solida roccia», tende alla Famiglia Cambino, di cui John Gotti è diventato il capo, eliminando nel 1985 Paul Castellano, il vecchie Padrino. Cresciuto come ladruncolo sino di Cesare potè fare prestiti con l'interesse mostruoso del 48%. Meglio non guardarli troppo da vicino, gli eroi e i santoni messi sull'altare della storia: possono riservare delle sorprese molto sgradevoli o addirittura ripugnanti. Sono circa trecento i passi latini e greci raccolti e commentati in questo interessantissimo volume. C'è anche il testo a fronte e la traduzione, non occorre dirlo, è dello stesso Perelli, che nelle lingue classiche, ma non solo in quelle, ci sta di casa. Naturalmente la ricerca è finalizzata allo scopo che l'autore si è prefisso: dimostrare che le Tangentopoli ci sono sem- pre state, in qualsiasi epoca e sotto qualsiasi cielo. Per capire quanto il libro di Perelli sia di bruciante attualità basta già scorrere il sommario. Qui si parla di concussione e di peculato, di corruzione elettorale e di brogli, di appalti e di tangenti, di raccomandazioni e di voti di scambio, di bustarelle e di corruzione della giustizia. Che cosa è cambiato, in duemila anni? Niente, assolutamente niente! Ciò dipende dal fatto che l'uomo, in fondo, rimane sempre uguale a se stesso. Chiamatelo pure pessimismo naturalistico, ma non è in potere delle leggi e delle costituzioni rifare ex novo l'uomo. Ognuno resta quello che è per invincibile natura. Le pagine più belle del libro so- no quelle dell'introduzione, dove Perelli fa scintille anche dal punto di vista stilistico. Qui egli attacca lo Stato assistenziale, che è cosa ben diversa dallo Stato sociale, e lascia capire che i nostri politici, per demagogia, si sono sempre comportati come preti di complemento. E lancia anche dei sampietrini nel sacrario della magistratura in fregola di pubblicità. Resta però un problema, cui l'autore accenna solo di sfuggita. Come mai, nonostante le ruberie e le malversazioni, l'immenso impero romano potè durare per tanti secoli? Evidentemente i meriti delle sue strutture politiche e am- ministrative erano di gran lunga superiori ai difetti. Osservate attentamente un qualsiasi edificio romano, sia esso un ponte, un acquedotto o un semplice muro, e capirete subito perché l'Imperium abbia potuto durare così a lungo. In sintesi, allora si rubava molto, ma ancora di più si faceva. Ora, viceversa, si ruba e non si fa niente. Affine, per qualche verso, al libro di Perelli è quello di Umberto Albini: Atene, l'udienza è aperta (Garzanti). E' ben scritto, ben pensato, spiritoso e molto divertente. Non ha la forma di un trattato sistematico, però vi è un filo unitario che collega tutto al tema enunciato nella prefazione: l'interesse dei greci per i processi, paragonabile a quello dei romani per le liti. L'agorà e il foro costituivano anche forme di spettacolo. Ai processi pubblici, in Atene, assistevano migliaia di persone. Il tema affascina Albini, che a sua volta affascina il lettore. Si sente subito che egli, oltre a essere un bravo filologo classico, ha anche talento per il teatro. Si trova a suo agio nel raccontare e starei per dire nel drammatizzare gli episodi tratti dalla cronaca giudiziaria o dalla vita quotidiana dell'antica Atene. Viene da pensare che noi abbiamo ereditato proprio dai greci e dai romani la voluttà di litigare. Questo spiega anche il gran numero di avvocati o di «pagliette», come li chiamavano all'inizio del secolo, che in Italia hanno sempre vissuto alle spalle dei litigiosi. Non sembra, invece, che ad Atene e a Roma i giudici fossero ammantati di sacralità come oggi. Questa è una specialità tutta nostra. Strano: se si crede alla perfettibilità umana, come si va predicando in tutti gli angoli, allora i giudici dovrebbero venire molto dopo gli insegnanti, perché, prima di condannare qualcuno, bisognerebbe quanto meno cercare di educarlo. Ma così non è e gli insegnanti, se paragonati ai giudici, vengono trattati quasi come pezzenti. Il mondo si sviluppa alla rovescia come la coda dei vitelli. Quando a Cassino, la città che era stata letteralmente polverizzata dai bombardamenti americani, si cominciò a ricostruire, per prima cosa si pensò non alle case e alle scuole, bensì al tribunale, alle carceri e alle chiese. Siamo forse tutti briganti o tutti angeli come nelle tragedie di Schiller? Anacleto Verrecchia Luciano Perelli La corruzione politica nell'antica Roma Rizzoli, pp. 326. L. 15.000 Umberto Albini Atene, l'udienza è aperta Garzanti pp. 168. L. 29.000