GIBSON ILLUMINA L'AMERICA VIRTUALE

GIBSON ILLUMINA L'AMERICA VIRTUALE GIBSON ILLUMINA L'AMERICA VIRTUALE e criminalità appaiono quanto mai labili, la costa americana del Pacifico è diventata quel caotico rimescoho di popolazioni che già faceva la sua comparsa nelle sequenze cinematografiche di Biade Runner. Finito ogni conflitto ideologico, anche i Russi sono sbarcati in California come agenti di polizia e killer brutali, che sembrano usciti da un vecchio film di spionaggio. Insomma l'America post-moderna dell'ultimo romanzo di William Gibson, Luce virtuale, tradotto con grande perizia da Delio Zinoni per Interno Giallo/Mondadori (pp. 262, L. 30.000) è come una rapida sequenza di immagini televisive e cinematografiche, in cui la fantascienza si mescola al thriller, mentre i personaggi sembrano quelli di Roger Rabbit (fanno di nome Bunny Malatesta, Sammy Saladin Dupree, Warbaby) e sono in parte «reali» in parte simili a stravaganti cartoons, privi di qualsiasi spessore psicologico e tuttavia funzionali alla carica visionaria dello scrittore, che proietta i suoi sogni nella mente d'una generazione in cui il futuro del ciberspazio e della realtà virtuale appare più vicino del passato del Muro di Berlino e della Guerra Fredda. L'iperrealtà trionfa nel design lucente degli oggetti, nella frenesia degli spostamenti, nella valanga dei segnali acustici e visivi e l'umanità appare in preda al dancer, la terribile droga ballerina. Se nella comunità di Fallonville Dio appare agli adepti sugli schermi televisivi, i Pirati informatici (gh hackers) hanno creato una loro Repubblica del Desiderio, da cui possono intervenire sulla realtà - o di quello che resta - per inserirsi nelle banche dati, lanciale falsi messaggi, sabotare informazioni e sistemi di comunicazione. Non proprio tutta la Storia con la S maiuscola è morta, tuttavia, anche se il vecchio saggio robivecchi Skinner proclama che essa «stava diventando una cosa di plastica», e se il suo gentile aiutante, lo studente giapponese Yamazaki, venuto a indagare sul caos urbano di San Francisco, non riesce a vendere, tra tutte le carabattole di Skinner, una copia ammuffita della Columbia Literary History of the United States. Alla domanda «ma a chi interessa la Storia nel mondo futuribile di William Gibson?», si potrebbe rispondere: proprio a William Gibson. E infatti, tra gh echi di un altro William postmoderno (Burroughs) e di J. G. Ballard, nella tradizione ormai consolidata dei cosiddetti cyberpunk, di cui Gibson è l'esponente più geniale e più consapevole, fa capolino l'etica del vecchio individualismo americano, che si serve delle armi dell'informatica per lottare contro la tirannia dello Stato asservito ai grandi trust, e che sa ricreare lo spazio della libertà, esaltando l'altruismo, lo spirito di sacrificio, la difesa dell'inalienabile diritto a vivere la propria vita. Più che nelle vicende parallele che coinvolgono la messaggera in bicicletta Chevette Washington e l'ex-poliziotto del Tennessee Berry Tyrrell, questo «messaggio» si traduce concretamente nel paesaggio disorganico di un grande ponte, l'Oakland Bay Bridge, non più percorribile dal traffico a causa d'un terremoto appena più violento di quello che San Francisco ha conosciuto di recente, e diventato l'habitat variopinto di una moltitudine di emarginati e di reietti, alloggiati in precario equilibrio sulle sue pericolanti strutture, a dimostrazione della straordinaria capacità umana di sopravvivere a qualsiasi sfida, naturale o tecnologica. Se molti dei personaggi di Luce virtuale appaiono come sinistri cyborg degni del Terminator, macchine travestite da

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