Addio all'ultimo ponte di Hitler di Emanuele Novazio

Demolito con la dinamite. Nel '45 vide la stretta di mano tra russi e americani Demolito con la dinamite. Nel '45 vide la stretta di mano tra russi e americani Addio all'ultimo ponte di Hitler Così il Comune di Torgau ha evitato di restaurarlo per il cinquantenario BONN DAL NOSTRO CORRISPONDENTE Hanno cercato invano di salvarlo perché continuasse a «parlare la lingua della pace», come chiedevano centinaia di cittadini. Il ponte di Torgau sull'Elba, invece - una scheggia di storia e un simbolo, dopo l'incontro fra soldati americani e russi che annunciò la fine della guerra e del nazismo, il 25 aprile di 49 anni fa - è saltato in aria l'altra sera. Quasi all'improvviso, con un preavviso di poche ore appena: le arcate di ferro si sono accartocciate, la massicciata in pietra si è sbriciolata. In pochi giorni gli operai del Comune toglieranno i detriti, smonteranno i tralicci contorti che sono rimasti in piedi, ripuliranno il fiume, seppelliranno una leggenda. Alle spalle di una disputa che ha opposto per mesi la municipalità locale e lo Stato di Sassonia a «un'associazione per il salvataggio» che ne voleva fare un monumento nazionale, ci sono conti economici e valutazioni controverse sui costi di restauro. Per garantire la solidità e la tenuta del vecchio ponte - stimavano gli enti pubblici - ci sarebbero voluti fra i sette e i dieci milioni di marchi, altrettanti miliardi in lire: una fortuna che nemmeno i festeggiamenti per il cinquantenario del primo abbraccio russo-ameri- A CUBA OGGI Mariel è un piccolo porto di pescatori addormentato nei caldo dei Tropici, sulla punta occidentale di Cuba. Sta a una quarantina di chilometri dall'Avana. L'acqua si stinge dolcemente di celeste, sui bassi fondali di sabbia bianca, e le palme di cocco appoggiano pigre al bagnasciuga le loro radici antiche; ma è tutto lì: nel silenzio ovattato che lo avvolge non c'è vita, quasi, non ci son pescatori né barche, e non c'è mai altro rumore che il gioco di alcuni bimbi che si tuffano in acqua dalla prua arrugginita di un vecchio peschereccio in secca. L'orizzonte è fermo, immobile, come poi ogni altra parte dell'isola oggi; la fame chiude stretta gli stomaci, l'inedia diventa una vita quotidiana passata dentro il rallenti. Ma ad aprile d'una decina di anni fa, nell'80, Mariel era un inferno sceso in terra: barche e barchette, yacht, gozzi, lance, motoscafi d'alto mare, vecchie carrette ripittate, l'orizzonte qui era diventato un brulichio invasato di natanti e vaporiere che venivano da Miami a portare in paradiso i 125.666 cubani che avevano scelto la libertà; sembrava il mercato del Rastro, la domenica mattina, e tutti compravano e vendevano speranze. Era cominciata con poco più di niente, il primo di aprile, quando sei cubani s'erano presi un autobus e l'avevano lanciato a rotta di collo verso Miramar: avevano sfondato il cancello, travolgendo anche un poliziotto che voleva fare il vigile urbano, e s'erano piazzati nel piccolo cortile dell'ambasciata peruviana come «rifugiati politici». Castro, che non aveva capito ancora bene come stesse cambiando l'umore della Revolución, si era irrigidito e aveva ordinato il ritiro di tutti i poliziotti che proteggevano l'ambasciata: e lo fece sapere anche su «Granma», il giornale del partito. Fu come se si aprissero le porte dell'illusione: in due giorni, la Quinta Avenida si fece una processione di popolo che trasmigrava dentro quel cortile stretto e corto a chiedervi asilo politico; vi si ammassarono in 10.865, donne, vecchi e bambini compresi, disperati e vocianti, senza acqua né cessi né altra voglia che quella di andarsene in paradiso a guardare il movie e a mangiare l'hamburger. Il braccio di ferro fu lungo, con momenti anche di tragedia collettiva. E non si poteva credere davvero che i 10 mila disperati fossero semplice- cano, l'anno prossimo, avrebbero giustificato. Soprattutto dopo l'inaugurazione del nuovo ponte di cemento armato, pochi mesi fa: una sola campata per 491 metri di lunghezza. Ma anche se adesso non c'è più, il «ponte di Torgau» continuerà a essere quello dal profilo curvo e un po' invecchiato che per quarantanove anni ha significato soprattutto l'arrivo della pace. In città c'è ancora chi ricorda il sottotenente William Robertson del primo battaglione, 273° reggimento fanteria: è stato lui il primo militare americano ad arrivare all'Elba su una Jeep, insieme ai tre uomini della sua pattuglia da ricognizione, mentre la «Wehrmacht» era in fuga dopo aver devastato con l'esplosivo il ponte. Sull'altra sponda lo aspettava il sottotenente Alexander Silwaschko, 58° battaglione deH'«Armata Rossa», secondo gli accordi presi dagli Alleati a Yalta. Ma Robertson non aveva il razzo per le segnalazioni, come era stato invece concordato fra i due comandi: si fermò perciò in una bottega, pochi chilometri più avanti, trovò un lenzuolo e un residuo di vernice rossa e blu, fece una bandiera che avrebbe dovuto avvisare dell'arrivo americano. La sventolò, ma nessuno gli rispose. Lo aiutarono le grida di un prigioniero appena liberato, 25 aprile 1945: ufficiali russi e americani si che urlò qualcosa in russo. Quando lo sentirono, gli uomini di Silwaschko uscirono finalmente allo scoperto: Robertson allora si piegò, toccò con le ginocchia e con le mani l'impiantito rovinato del ponte mentre gli altri, americani e russi, si abbracciavano e saltavano. Più tardi arrivarono ancora pattuglie e ci furono altri abbracci: ma l'incontro ufficiale avvenne soltanto l'indomani, nel castello di Torgau. I pochi civili rimasti, dopo l'ordine di sgombero impartito dalle truppe hitleriane in fuga, uscirono finalmente dai rifugi nei quali da giorni vi¬ vevano nascosti: furono gli unici tedeschi presenti alla sfilata dei due eserciti attraverso la città deserta. I soli a vedere i mezzi corazzati della Prima Armata che da Torgau puntavano su Eilenburg: chi c'era ha raccontato che quando, all'altro capo del ponte, i sovietici sventolarono le bandiere e gli americani risposero al saluto, esplose il giubilo. Tutti, i soldati dei due eserciti e i tedeschi che non avevano abbandonato la città, avevano capito che la guerra stava davvero per finire. Fu allora che, davanti al ponte di ferro dal profilo curvo, stringono la mano sul ponte sull'Elba americani e sovietici pronunciarono «il giuramento di Torgau»: «Mai più guerre, faremo tutto quel che è in nostro potere per impedire che possano ripetersi, e perché i popoli del mondo possano vivere per sempre in pace». Nel '47 un soldato che il 26 di aprile aveva partecipato alla sfilata, Joseph Polowsky, formalizzò l'impegno di quel giorno. Il testo è nel memoriale lungo l'Elba: ma se la lapide c'è ancora, l'altra sera se n'è andato un testimone, uno degli ultimi rimasti. Emanuele Novazio

Persone citate: Alexander Silwaschko, Hitler, Joseph Polowsky, Robertson, William Robertson

Luoghi citati: Avana, Comune Di Torgau, Cuba, Miami, Sassonia, Yalta