Gli invasori conquistati di Curzio Maltese

Gli invasori conquistati Il calcio voleva contagiare gli yankees, ma per ora sono calciatori e giornalisti ad appassionarsi allo sport Usa Gli invasori conquistati DNEW YORK UE americani su tre, sostiene l'inevitabile sondaggio, non sanno che negli Stati Uniti si svolgono i Mondiali di calcio. Il terzo lo sa, ma se ne frega. Appassionato com'è del «suo» football, di baseball, pallacanestro e hockey su ghiaccio, matto per cifre, punteggi e percentuali. Questo dato deprimente ha riacceso da noi l'eterno dibattito tra pessimisti ragionevoli e volenterosi ottimisti intorno alle sorti di Usa 94. Secondo i primi gli americani cambieranno canale sbadigliando al primo zero a zero con definitiva delusione di Henry Kissinger e della Fifa. Gli altri insistono sul fascino irresistibile, qui più che altrove, del media event - il bombardamento di immagini e parole incoraggiato in genere dagli sponsor - capace di contagiare le masse americane col tifo calcistico, malattia più popolare del mondo. Una terza ipotesi - poco frequentata - è che possa accadere l'esatto contrario, che insomma rischiamo di finire noi tutti, giornalisti e tifosi del Vecchio Continente, ad appas- sionarci per il grande sport americano, ammaliati dal turbinare di questo circo popolato di numeri iperbolici, fantastici eroi e montagne di dollari. Un segnale già ben visibile sta nello spazio e nei toni entusiastici che gli inviati calciofili stanno dedicando alle finali del basket Nba, con la scusa della presenza in tribuna di Tassotti e Costacurta, dopo aver ignorato per anni l'esistenza della casereccia pallacanestro italiana. Ma vuoi mettere Scavolini-Knorr, o come diavolo si chiamano, o anche un pallosissimo GreciaBulgaria contro la magìa di New York Knicks-Houston Rockets come quello dell'altro giorno al Madison Square Garden? No, non c'è partita. Ed è sempre più difficile anche cercando di distrarsi al pensiero del divino Baggio tenere a bada la voglia di unirsi ai coloratissimi cortei di fans del basket o dell'hockey in festa in questi giorni per le imprese delle loro squadre. La Grande Mela vive in questi giorni una luna di miele con i due grandi sport nazionali. Mentre Ewing e compagni si battono per l'anello Nba, i Rangers di hockey hanno conquistato sempre al Madison il titolo nazionale (Stanley Cup) contro la favorita Vancouver. Non succedeva dal 1940. Ed è successo nel più spettacolare dei modi. All'ultimo tempo dell'ultima partita, la settima, con un solo gol di scarto (3-2) e Il presidente della Federcalcio coreana, nonché magnate della Hyundai, ha offerto ai suoi calciatori il suo kimchi personale, cavolo rosso piccante, con ricetta che varia di famiglia in famiglia. Se andranno bene, dovrà pagare alti premi, e saranno altri cavoli suoi. Sennò saranno cavoli loro. il vecchio campione a bordo campo intervistato dalla tivù mentre recitava la frase storica: «Sono passati cinquantaquattro anni, quindici minuti ancora non sono nulla». Più tardi, un quarto d'ora dopo il fischio della sirena e l'invasione della 33a Strada, i palloncini e i fuochi d'artificio nella notte newyorkese. Mentre alla stessa ora a Vancouver scoppiava la rivolta, con le vetrine rotte e le auto incendiate, gli scontri dei tifosi con la polizia fino all'alba e un bilancio finale da guerriglia: circa duecento feriti, di cui alcuni in gravi condizioni. Perché gli americani le cose, nel bene come nel male, comunque le fanno in grande. Il tutto filmato dalla Cnn e diffuso, con la formula del fast food news, nel resto dell'universo. A parte ogni considerazione moralistica, si capisce bene che, di fronte a simili kolossal d'azione, la pretesa di coinvolgere gli americani nelle nostre menate tecnico-tattiche intor¬ no al 4-3-3 o 4-4-2 risulta assai ambiziosa. Più o meno come sfidare sul mercato del cinema Spielberg con Soldini o Nanni Moretti. Ancora più fallimentari e ridicoli si sono rivelati i tentativi di americanizzare il vecchio calcio a botte di regole dello show business e del marketing. L'errore che fin dai Cosmos ha commesso il soccer americano, quello di trasformarsi in calcio light, come la Coca-Cola dietetica. Bisogna rassegnarsi all'idea che l'individualismo americano non si diverta allo spettacolo del «collettivo». Nel calcio i campioni non sono eroi solitari. Giocano per la squadra, la illuminano e non viceversa. Pelé «era» il Brasile, Cruyff era la grande Olanda, Maradona l'Argentina, Platini la Juve, Riva e Rivera l'Italia. Tutti uomini-squadra. A Usa '94 abbiamo invece portato le stelline, i Baggio, i Romario, gli Asprilla che non fanno squadra. Ma allora, per conquistare lo star system, dovrebbero vantare ben altri «numeri». Curzio Maltese