E un Giallo italiano scalerà il Campiello

IL CASO. Finita l'era degli pseudonimi inglesi: in un anno, rivoluzione nella nostra narrativa IL CASO. Finita l'era degli pseudonimi inglesi: in un anno, rivoluzione nella nostra narrativa E un Giallo italiano scalerà il Campiello ARRIVANO gli assassini. Col loro seguito nero di serial killer, avvocati del diavolo, topi da autopsia, I schizofrenici manicomiali, spie, doppiogiochisti, stupratori, maniaci sessuali, barbablù e barbe finte. L'anno prossimo sciameranno tra le calli di Venezia, si impadroniranno di Palazzo Ducale. «E porteranno via il primo Campiello della storia», parola di Giovanni Ungarelli, amministratore delegato della Rizzoli libri. Uno scherzo estivo o una vera e propria profezia? Ad indagare tra le case editrici sembra proprio prevalere la seconda ipotesi. L'Italia della lettura ha fatto, silenziosamente, una sterzata violenta. E il «giallo» si sta impadronendo della narrativa italiana. Lentamente, metodicamente. Scacciando scrittori «alti», nouvelles vagues letterarie e nipotini di Moravia. E' una sorta di rivoluzione che non risparmia nessuno. Mondadori - solo per fare un esempio da inizio anno ha pubblicato 19 titoli. Bene: 7 sono variamente «polizieschi». Magari non con il classico appuntato dei carabinieri o con il commissario di polizia a dipanare la vecchia matassa. Ma l'aria che si respira è comunque «trillercsa», gonfia di misteri e di colpi di scena. Con profondi squarci di società, racconti di vita reale, storie vicine. Conferma Marco Tropea, ora Longanesi, dopo aver inventato con Laura Grimaldi Interno giallo: «Finalmente l'hanno capito anche gli altri: questa è la letteratura dei nostri giorni. E' finita da un pezzo l'era dell'introspezione, del continuo chiedersi chi siamo e da dove veniamo. L'occhio, e il gusto, si è rivolto all'esterno, al di là dello scrittore. Interessano sempre meno i suoi tormenti, le infinite liti con se stesso, i suoi noiosissimi rapporti con l'ego. Ciò che si chiede è buona scrittura, ma indirizzata altrove. Possibilmente in un mondo vero, popolato di vicini di casa e di persone riconoscibili sia nel loro squallore che nelle loro grandezze. Un mondo comune, afflitto di paure, di speranze, di rimorsi o di gioia. E non c'è nessun filone migliore del giallo che offra ad un autore le possibilità di divagare e di raccontare. Ha ragione Laura Grimaldi quando dice: "Se uno non piglia il tram non può mettersi a scrivere"». Tante parole, in sostanza, per descrivere un fenomeno che al di là dei confini è regola. Ma la rivoluzione in atto non si ferma qui. L'aspetto più eclatante è ancora un altro. Ungarelli la definisce così: la stagione di caccia all'italiano. Capita cioè in editoria ciò che capitava nel cinema tanti anni fa. Uno voleva firmare un western? Come minimo, doveva rinunciare a chiamarsi Sergio Leone e inventarsi un nome anglosassone. Salvo poi diventare il maestro mondiale del genere. L'ultimo di mille casi è successo non più di un anno fa. Stefano Di Marino ha per le mani un manoscritto delizioso. Malesia tra comunismo, spie e colonialismo. Va da Ferruccio Parazzoli, responsabile degli Oscar, che annuisce contento: «Bello. Lo chiameremo Pista cieca. Però ti battezzo Stephen Gunn. Se no qui non si batte un chiodo». Ma ormai è acqua passata. «Oggi non succederebbe più - dice Antonio Franchini, uno dei re- sponsabili della narrativa italiana di Segrete -. Si sono rotti i vecchi pregiudizi. Un bel libro di tensione è spesso molto meglio di certa letteratura. A fine anno noi arriveremo a pubblicarne 7 su 19, quasi un terzo. Rispetto al '93 - 4 su 18 - il rapporto è decisamente mutato». Luciano Simonelli, neo direttore editoriale della Rusconi, va più in là. Non si tratta soltanto di gusti cambiati. «Fino a ieri la ricerca dello scrittore alto nascondeva una falsa pesca. Quella nello stagno immobile dei gruppi culturali di potere. In parole povere: o appartenevi ad una certa parrocchia o non entravi nel gotha. Il romanzo come esercizio stilistico e nulla più. Secondo quei criteri persino I promessi sposi o Addio alle armi sarebbero troppo popolari. E poi vigeva una tesi assurda: era sufficiente un cognome per decretare la nascita di un'ennesima "opera d'arte". Da Moravia a Bevilacqua: non era ammissibile che il maestro potesse avere una caduta, un romanzo infelice. Guai a criticarli e dire: "Questo non mi piace". Era tutto buono per definizione. Senza capire una cosa fondamentale: ogni libro è una storia a sé. Ben venga dunque questa nuova aria: il giallo è la forma narrativa più attuale, l'unica legata alla stagione storica che stiamo vivendo». Rimangono due punti da chiarire: ci sono un Le Carré italiano e, eventualmente, una giuria disposta a premiarlo allo Strega, al Campiello, al Viareggio o al Bancarella? Gian Arturo Ferrari, direttore editoriale della Mondadori, ha i suoi dubbi: «Intanto facciamo ordine. I generi sono due: quello letterario e quello di intrattenimento. Noi abbiamo deciso di riequilibrarli. Ma confessiamolo: gli italiani continuano e continueranno a leggere gli stranieri. I colpevoli? Coloro che governano l'informazione: critici, recensori, grande stampa, tv. Non c'è attenzione, non c'è rispetto. E poi, onestamente, bisogna aggiungere un dato ineluttabile: l'italiano è una lingua letteraria, colta, nazionale. Molto lontana da quella parlata, dai mille dialetti e dalle influenze locali che si usano tutti i giorni. Istintivamente perciò, chi scrive identifica Yalto esclusivamente nel letterario e non nell'intrattenimento, al contrario di chi invece si esprime in inglese. Per un premio quindi ci vorrà tempo». Più possibilista - s'è visto - è invece Ungarelli. Nonostante le cifre ufficiali siamo catastrofiche: a casa nostra infatti su 100 autori pubblicati, solo 15 sono italiani. «Ci arriveremo, e anche abbastanza in fretta. Se non altro per un dato economico. La gente non è disposta a svenarsi per un libro e i costi di traduzione aumentano sempre di più. Inoltre è anche finito il tempo dell'inesauribile dibattito da cenacolo letterario tra scrittori e critici. Basta: uno scrive per pubblicare o per essere letto? Ma di quanti premiati purtroppo si sente dire dalla gente: "Sono arrivato fino a pagina 20 e poi...". Bisogna finirla con questa sorta di razzismo intellettuale». Come fare? Ungarelli propone una soluzione polemica e forse paradossale per far coincidere i gusti dei giurati con quelli del pubblico: «Incominciamo domani a misurare i premi a consuntivo. Usiamo la controprova dei lettori per educare chi li assegna. Dopo questa cartina di tornasole, se sbagliano: via. E vedrete che fin dall'anno prossimo anche un giallo arriverà in cima». Piero Soria Parlano i direttori editoriali: e Ungarelli accusa i giurati dei premi Sopra, Giovanni Ungarelli, amministratore delegato della Rizzoli libri Sotto, Marco Tropea della Longanesi Sopra, Gian Arturo Ferrari, direttore editoriale della Mondadori

Luoghi citati: Bevilacqua, Italia, Malesia, Venezia