IRLANDA Il museo della fame di Mario Ciriello

Dopo 150 anni di silenzio, l'Eire riscopre la carestia che dimezzò la popolazione Dopo 150 anni di silenzio, l'Eire riscopre la carestia che dimezzò la popolazione MANDA // museo della fame m fi LONDRA m EL 1840, 8 milioni di ir■ landesi vivevano sulla loII ro bella «isola di smeral±-3J do». Dieci anni più tardi, nel 1850, gli 8 milioni erano divenuti 5 e mezzo. Due milioni e mezzo di uomini, donne e bambini erano scomparsi e mai più sarebbero tornati. Quasi un terzo della popolazione era stato ingoiato da un «buco nero» della storia: un milione di irlandesi era morto, un milione e mezzo era fuggito, aveva abbandonato quella terra ormai maledetta. E' una tragedia biblica, un flagello che cambiò per sempre la piccola nazione, che la trasformò nel corpo e nello spirito. Eppure quanti europei conoscono questa catastrofe, le sue cause e le sue conseguenze? Pochissimo. E' ora dunque di alzare il sipario, di «affrontare questo doloroso viaggio ne! passato». Così ha detto Mary Robinson, presidente dell'Eire, una signora bella e simpatica, all'apertura, in questi giorni, del primo museo irlandese dedicato alla Great Famine, la grande carestia. Sì, perché fu una mostruosa carestia a fare dell'Irlanda un'isola dimenticata da Dio e dagli uomini, un girone dantesco di orrori e crudeltà. Tali furono le ferite che, per molti, troppi anni gli irlandesi preferirono ignorarle, lasciando ai soli storici il compito di descriverle. Qua e là, in qualche villaggio, un cippo o una lapide ricorda, con scarne parole, le vittime della sventura, ma sono testimonianze rare e neglette. «La verità è - ci hanno spiegato al nuovo Famine Museum e al National Museum di Dublino che, per un secolo e mezzo, gli irlandesi hanno cercato rifugio nel silenzio». Quasi si vergognassero di questa calamità, come se ne fossero responsabili. Bello e onesto il discorso di Mary Robinson, che, con un riferimento all'infelice storia dell'Irlanda, ha indicato nella carestia un esempio di quella «impotenza» che tanto ha influito sull'evoluzione della «coscienza nazionale». «Ma oggi - ha aggiunto - nel percorrere questo museo, dobbiamo essere fieri. Celebriamo, ricordiamo, qui, il nostro popolo, non per la sua potenza, non per le sue vittorie, ma per la dignità profonda della sua sopravvivenza». L'essere sopravvissuti alla carestia, insomma, fu già di per sé stesso un atto di eroismo, un trionfo contro una brutale alleanza della natura e degli uomini. Allo stesso tempo, era giunta l'ora di disperdere i molti miti che hanno messo radici nell'immaginazione popolare. Uno soprattutto, quello che vede nella strage un gelido genocidio voluto dal governo inglese. Le commemorazioni di questi giorni fanno da prologo all'anniversario vero e proprio, che ricorrerà l'anno venturo. Fu nel 1845, infatti, che la Great Famine cominciò a fare scempio dell'Irlanda e, dopo 150 anni, l'avvenimento sarà ricordato da numerose mostre, da speciali tele- visivi, da una pioggia di libri. Di questi testi il più atteso è quello di Thomas Keneally, bravissimo scrittore australiano di origine irlandese, autore di Schindler, il libro da cui Steven Spielberg ha tratto il suo film. Cerimonie parallele si terranno in Canada e negli Stati Uniti, i due approdi di chi cercò scampo Oltremare. L'alimento base della dieta irlandese era la patata, divorato in quantità colossali. Il consumo, tra i contadini, toccava l'incredibile media di 7 chili al giorno per persona, 7 chili che, lessi, fritti, arrosto o convertiti in pane, offrivano al popolo vitamine e calorie a iosa. Gli irlandesi erano allora tra la gente più robusta e tarchiata d'Europa: un proverbio avvertiva: «Ci sono cose su cui non si può scherzare, son troppo serie, una di esse è la patata». Nel 1845, una nuova malattia, giunta dall'America (phytophthora infestans) colpì il tubero e distrusse il raccolto. Il flagello infuriò, su scala più vasta, l'anno successivo e ancora nel '48. Era un killer velocissimo, quel fungo. In pochi giorni trasformava un terreno coltivato a patate in un pantano putrescente. E così, tra il '45 e il '46, l'Irlanda cominciò a morire di fame. Le cronache dell'epoca sono allucinanti. Nel febbraio 1847, un vascello della Marina inglese gettò l'ancora in un porticciolo nella contea di Cork, nel Sud-Est. Il suo comandante scese a terra, in ricognizione, e il suo rapporto a Londra è fra i più spaventosi documenti negli archivi del British Empire. L'ufficiale scrisse che il villaggio era abitato da «scheletri viventi». «Qua e là, giacciono dei cadaveri, scarnificati dai topi e rosi dai cani». C'erano delle fosse, «vi marcivano i resti di quelli che erano stati uomini». In una capanna, il capitano trova una donna, «simile ad un mucchio di ossa», che urlava impazzita! «Qualche bambino era ancora vivo, ma le mascelle deformate impedivano loro di parlare; e vidi dei ragazzi che la fame e una singolare crescita della peluria sulle guance faceva somigliare a scimmiette sparute, sfinite». Nella breccia aperta dalla carestia irruppero presto malattie letali, veri e propri cavalieri dell'Apocalisse, tifo, dissenteria, scorbuto e le «febbri» più diverse. James Morris, nella sua «Storia dell'Impero Britannico», scri¬ ve: «Virus di ogni specie erano portati da città in città da torme di mendicanti famelici, simili a lupi. Mai dalla fine del Medioevo un angolo d'Europa aveva sofferto devastazioni tanto orribili». Un visitatore gallese riferì di avere scorto «frotte di donne seminude, nella neve, alla ricerca di rape per i loro bambini che le seguivano urlando per la fame». C'è chi vide creature divorate dai cani, mentre morivano. A Remare, il parroco entrò in una casupola e vi trovò un uomo, ancora vivo, sul letto con la moglie e due bambini tutti morti. Accanto al giaciglio, un gatto mangiava il cadavere del terzo bimbo. Così perì un milione di persone. Un altro milione e mezzo fuggì, ma non si sa quanti si sal- | varono. Coffin-ships, navi-bare, così erano chiamati i vascelli che portavano in America questi emigranti corrosi dalla fame e dalle malattie. Viaggiavano come bestie, peggio anzi: lo spazio concesso ad ogni emigrante era crudelmente preciso, due metri per uno, lo spazio in cui erano confinati durante le lunghe navigazioni, durante le tremende bufere atlantiche, durante le sofferenze e le agonie. Molti sbarcavano nell'estuario del Saint Lawrence, non lontano da Quebec e, prima di essere ammessi in Canada, restavano isolati in quarantena a Grosse Isle, un isolotto in mezzo al fiume. Oggi una lapide a Grosse Isle ricorda: «Qui giacciono i resti mortali delle persone che, fuggite dalla peste e dalla fame in Irlanda, nell'anno 1847, non trovarono in America che una tomba». Nulla può giustificare la condotta degli inglesi durante questa catastrofe. Londra non può essere accusata di genocidio, perché ciò comporta una strategia, una volontà, ma la sua indifferenza verso il flagello abbattu¬ tosi sull'Irlanda fu criminoso. Le cause? Anzitutto, sebbene ne fossero i padroni da 700 anni, gli inglesi non sapevano quasi nulla di quest'isola che, ai loro occhi, era un possedimento «ibrido», né un pezzo della madrepatria né una colonia. Londra si sentiva allora più vicina all'India che all'Irlanda. Non basta. Il pensiero politico inglese era dominato dall'individualismo, mentre i comportamenti economici erano dominati dalla dottrina del laissez faire. Risultato: gli irlandesi si arrangino da soli, le leggi del mercato ristabiliranno prima o poi l'equilibrio sconvolto dalla moria di patate. Il governo inglese non diede soccorsi, non inviò viveri e, dopo il '47, quando incoraggiò la ripresa dei lavori, ne dedusse il costo dalle imposte locali. Ma come conciliare questa indifferenza con le nobili, tenaci campagne dei ceti medi a difesa di altre sventurate popolazioni dell'Impero, degli schiavi in Giamaica, ad esempio, di minoranze in India e in Afghanistan? Una spiegazione c'è, gli inglesi avevano fatto il callo alle sofferenze «visibili», dei vicini. L'Impero era allo zenit, ma le isole britanniche pullulavano di poveri. Un americano che visitò l'Inghilterra nel 1845 scrisse poi: «La faccia di questa società è chiazzata da frammenti sanguinanti di un'umanità miserabile, frodata, oppressa, schiacciata». L'Inghilterra stava ancora pagando il terribile prezzo della sua travolgente rivoluzione industriale. La tragedia irlandese non turbava una nazione che aveva visto in pochi anni milioni di contadini abbandonare le campagne e gremire gli slums, che ancora non aveva maturato il senso umano della sua nuova «missione imperiale». Sono passati 150 anni da quegli orrori e da quei terrori, c'è per la prima volta un Famine Museum. L'ubicazione stessa del museo compendia, simboleggia la tragedia. E' in una villa, Strokestown Park House, a Strokestown, un paesino nella contea di Roscommon, proprietà di una storica famiglia anglo-irlandese, i Mahon, che tanto fece per esacerbare le sofferenze. Nel 1847 il maggiore Denis Mahon decise di profittare della carestia per liberarsi dei suoi contadini. Ne espropriò 3 mila che, immiseriti, non potevano più pagare i fitti: e offrì un passaggio su una nave diretta in Canada a chi voleva andarsene. I più non arrivarono mai. Un terzo di tutti i passeggeri morì durante la traversata, altri spirarono dopo lo sbarco. Alla fine di quell'anno, Denis Mahon fu assassinato. Due uomini furono impiccati per il delitto. Secondo gli storici, erano forse, innocenti. Nel '49, quando la carestia cominciò a spegnersi, Strokestown aveva perso f88 per cento dei suoi abitanti. Molte altre comunità di diverse contee erano scomparse del tutto, per sempre. Mario Ciriello «Mucchi di ossa che urlano». «Bambini simili a scimmie sfinite». «Creature divorate dai cani» pochi giorni trasformava un terreno coltivato a patate in un tri viventi». «Qua e là, giacciono dei cadaveri, scarnificati dai topi e rosi dai cani». C'erano delle fosse, «vi marcivano i resti di quelli che erano stati uomini». In una capanna, il capitano trova una donna, «simile ad un mucchio di ossa», che urlava impazzita! pola e vi trovò un uomo, ancora vivo, sul letto con la moglie e due bambini tutti morti. Accanto al giaciglio, un gatto mangiava il cadavere del terzo bimbo. Così perì un milione di persone. Un altro milione e mezzo fuggì, ma non si sa quanti si sal-