MA CHE AUTARCHIA!

MA CHE AUTARCHIA! MA CHE AUTARCHIA! La cultura italiana Anni 30 fu più che mai internazionale: una «provocatoria» ricerca della storica Luisa Mangoni Elio Vittorini curò «Americana» per Bompiani (a sinistra) Cesare Pavese Identificava negli Anni 30 il decennio delle traduzioni cento solo attraverso quel fenomeno "nuovo" che era il fascismo. Ovviamente dai giovani intellettuali che si formavano negli Anni Trenta quell'immaginario "fascismo" era vissuto in modo intensamente polemico nei confronti del "fascismo-regime". Stiamo parlando di un fascismo eretico, di fronda. Paradossalmente Vittorini dirà che quello era un "modo antifascista" di essere fascisti. Un fascismo dunque visto come superamento del vecchio mondo, come funerale dell'Ottocento. E se non si capisce questo tratto generazionale comune, ci si impedisce di comprendere un fatto che ancor oggi appare non privo di rilevanza politica: le motivazioni che spinsero molti giovani come il Rimanelli di Tiro al piccione ad aderire a Salò affondano profondamente in quell'humus culturale degli Anni Trenta. Tanto che lo stesso Vittorini scrisse di quei giovani: "Non rimasero legati al fascismo in un modo diverso dal modo in cui io stesso ero stato legato al fascismo prima dell'intervento fascista in favore della reazione spagnola"». Torniamo a quello che lei chiama «uno dei periodi più l'affacciarsi nel corso degli Anni Trenta di una generazione intellettuale interamente nuova che ha in comune la percezione di vivere una "civiltà della crisi", un mondo che ha definitivamente rotto con il passato. Attraverso il moltiplicarsi delle tradizioni affiora quel desiderio di entrare nel Novecento che permea tutta la cultura di quella generazione. Un senso di sradicamento, di stordimento, di frattura con il mondo finito nelle trincee della Prima Guerra mondiale. Ecco, tra i giovani intellettuali italiani degli Anni Trenta si ha la sensazione che l'Ottocento sia finito, consu¬ mato per sempre. Naturale che in questo clima facesse presa la massima di Bontempelli: per noi italiani il Novecento comincia e vive con il fascismo». «Naturale»? E perché mai? In che senso il «Novecento» doveva essere identificato naturalmente con il «fascismo»? «Perché è un dato di fatto che in Italia la "cultura del Novecento" era stata e continuava ad essere fascista. E inoltre perché si immaginava, visto che il "vecchio" mondo liberale in Italia era finito con il fascismo, che gli intellettuali sarebbero entrati nel Nove¬ permeabili alle sollecitazioni internazionali». Anche la smania di «tradurre» fa parte di quella fame di «Novecento» che pervade gli Anni Trenta? «Certamente. La molla principale è l'uscita, la voglia di rottura col mondo vecchio. Ne sono prova l'antigentilianesimo che monta tra gli stessi allievi di Gentile, i dibattiti sulla "borghesia", su "Roma o Mosca", l'illusione di una politica estera imperialista vissuta come "rigenerazione" della politica interna. Ma poi anche la passione per la letteratura straniera, l'attenzione all'architettura del Novecento, la "scoperta dell'America", il tutto in una cornice che in quegli anni era costituita dal fascismo come "ribellione", chiusura col passato». Eppure, la storia che ci sta raccontando è tutta diversa dalla vulgata che ha prevalso nel dopoguerra: il fascismo come autarchia culturale, chiusura, provincialismo... «Diciamo che le circostanze hanno spinto per molti anni nella direzione di una semplificazione della storia, con ciò dimenticando le intuizioni dello stesso Togliatti sul fascismo come "regime reazionario di massa". E' stata così premiata una pigrizia mentale che ha gradualmente ossificato la ricchezza d'interpretazione su quel periodo della nostra storia. Senza capire che è proprio negli Anni Trenta che si situa in Italia la rottura col "mondo dei padri". Se non si capisce questo si stenta anche a capire cosa è stata la cultura italiana negli Anni Quaranta e Cinquanta». Non è certo un mero problema di contabilità per stabilire quanti libri siano stati tradotti... «Certo che non lo è». Ma allora è inevitabile porsi un interrogativo imbarazzante: un regime che con¬ Ritorna «limare» degli Anni Cinquanta che scosse i letterati sotto il Vesuvio sa energia con la quale la Ortese parla dei suoi problematici rapporti con la realtà. Diatribe a parte, Il silenzio della ragione - che, da solo, giustifica la ristampa de II mare non bagna Napoli, che gli altri racconti appartengono in verità alla più stucchevole tradizione napoletanistica post-bellica, anche a livello linguistico - ha il merito di riproporre un tema che può apparire anche di modesto interesse, quello del rapporto tra un piccolo gruppo di intellettuali e la loro città, ma che si è rivestito nel tempo di tali e tante implicazioni da trascendere abbondantemente il dato di partenza. E del resto non è un caso se Napoli costituisce da tempo un genere letterario «a parta», con sue caratteristiche particolari, e i suoi autori maggiori e minori (come potrebbe essere altrimenti se si parla di una città che sente il bisogno di avere un assessore «alla normalità» nella giunta comunale?). E qui si torna anche a Sud, la cui esperienza è del resto - per esplicito riconoscimento della

Persone citate: Bontempelli, Cesare Pavese, Elio Vittorini, Luisa Mangoni, Ortese, Rimanelli, Togliatti, Vittorini

Luoghi citati: America, Italia, Mosca, Napoli, Roma, Salò