«Caro giudice: ho 15 anni fammi morire» di Vittorio Zucconi

Distrutto dalle cure rifiuta un secondo trapianto di fegato e ottiene l'eutanasia Distrutto dalle cure rifiuta un secondo trapianto di fegato e ottiene l'eutanasia «Caro giudice: ho 15 anni, fammi morire» QUINDICI anni, una cicatrice lunga una spanna sull'addome dove per due volte gli hanno trapiantato il fegato, 39 chili appena di peso racchiusi dentro una pelle fragile e gialla come vecchia carta da musica, Benito Agrelo ha deciso di averne avuto abbastanza. Attraverso una petizione al Tribunale di Fort Lauderdale, in Florida, dove vive ■ se di vita si può parlare - ha chiesto e ottenuto il permesso legale di rifiutare ulteriori medicinali antirigetto e di lasciare che il suo corpo divori quello che rimane del fegato estraneo, fino alla morte prossima e inevitabile. «Meglio vivere poco, ma da essere umano, che continuare così», ha detto Be- nito, senza davvero ingannare nessuno. La sua scelta, chiarissima, è il suicidio. La frontiera dell'eutanasia che sembrava ancora lontana è invece già arrivata all'età oscena, insopportabile, di 15 anni, a un'età nella quale si dovrebbe pensare ad amare, a marinare la scuola. E' difficile accettare la «dolce morte» anche per chi abbia 100 anni. L'istinto di sopravvivenza, la forza che fa stare aggrappati alla vita, la fede, per chi ce l'ha, si ribellano anche al pensiero di un vecchio che perde la voglia di lottare contro le sue infermità. Ma 15 anni sono troppo pochi, perché il ragazzo che ancora dorme dentro di noi, perché il genitore, il nonno, il parente che sta dentro tutti non si alzino a gridare tutto il loro scandalo e l'orrore. Ma allora perché un giudice, che certamente non è meno umano di noi, perché i medici e l'assistente sociale di Fort Lauderdale, che avevano la supervisione legale e sanitaria del caso di Benito, non si sono opposti alla volontà suicida del ragazzo? Nella risposta sta tutto il dramma dei casi di eutanasia. Non si sono opposti perché hanno vissuto da vicino, mese dopo mese, ora dopo ora, non da lontano e nelle parole astratte di un giornale come stiamo facendo noi, la straziante battaglia di Benito contro il rigetto, il suo progressivo degradare fisico fra i dolori prodotti da medicine sempre più dure e sempre meno efficaci, il suo desiderio divorante di vivere anche un solo giorno da ragazzo normale, senza la tortura della terapia. Anche sapendo che quel giorno gli costerà mesi, forse anni di vita. E' un prezzo accettabile, morire a 15 anni per vivere un giorno da «normale»? E' uno scambio moralmente, umanamente, legalmente ammissibile quello che Benito ha chiesto e che il Tribunale degli uonrini ha sanzionato? E dove sta la mostruosità vera del mondo contemporaneo: nell'avere concesso il permesso legale di morire a un ragazzo di 15 anni o neh"avergli dato l'illusione medica di poter sopravvivere, ma a prezzo di tormenti quotidiani? Avversari e fautori dell'eutanasia avranno materia per contendere, per sostenere le loro cause opposte, la «santità della vita» contro la «qualità della vita», la corsa fra la tecnologia e l'etica, le promesse dell'accanimento terapeutico contro la realtà della morte. A noi che leggiamo restano nella schiena un brivido di gelo e il pensiero insopportabile di suo padre e di sua madre quando lui, Benito, li ha informati della decisione di lasciarsi morire, nonostante loro lo scongiurassero in ginocchio di resistere, di farsi fare un'altra puntura, di inghiottire un'altra compressa. «Finora ho lottato e vissuto per voi - ha detto - ora voglio vivere un giorno per me. Perdonatemi». Ora non potranno far altro che guardare il figlio morire. In nome della legge. E della tecnologia che oggi può mettere una madre e un figlio l'una contro l'altro, sul letto di morte. Vittorio Zucconi Camon e Pantarelli A PAG. 16

Persone citate: Benito Agrelo, Lauderdale, Pantarelli

Luoghi citati: Florida