Stalingrado in miniera

Stalingrado in miniera Stalingrado in miniera Sulcis, sfida tra consenso e liberismo SINDROME CROTONE CI penso io, proclamò pressappoco Margaret Thatcher giusto un decennio fa e, detto fatto, scatenò non molto flemmatici policemen a cavallo contro Arthur Scargill e i suoi minatori in sciopero. Ghe pensi mi, le ha fatto eco non più tardi di giovedì scorso - a quel che riferiscono le cronache - il neopresidente del Consiglio Silvio Berlusconi e, sfoderato il suo migliore sorriso, è sceso di persona sotto l'obelisco di piazza Colonna a rassicurare duecento minatori sardi in casco giallo, come sempre incazzatissimi. Meglio i sorrisi berlusconiani che le manganellate, chi può negarlo? Ma un bel po' di ministri del primo governo di destra della seconda Repubblica, quelli che avevano creduto quasi ciecamente allo slogan berlusconiano «liberali in politica, liberisti in economia», hanno prima protestato - con le forme che anche il Nuovo rispetta intorno al tavolo a ferro di cavallo del Consiglio dei ministri e poi hanno bestemmiato sottovoce - rivetti vigila - tutta l'indignazione per un atto che può segnare, a loro avviso, il perpetuarsi ad infinitum dell'eterna Crotone mineraria sarda, che affonda le radici tra il Cambriano superiore e il Devoniano. «Danno cento milioni a lavoratore - s'è affrettato a chiosare con precisione Bossi l'uscita di Berlusconi sotto l'obelisco - ma non è così che si salva la Sardegna. Questa è la stessa logica di chi ha rovinato il Paese. Bene ha fatto Gnutti a non firmare il decreto». Vito Gnutti, ministro dell'Industria, per non criticare esplicitamente il suo presidente ha preso un po' di tempo annunciando che la prossima settimana andrà nel Sulcis di persona per rendersi conto della situazione. Così, il povero Gnutti si è praticamente sparato alle gambe, perché - andando nel Sulcis - lui non lo sa, ma dovrà confrontarsi con Agostino Depretis, Quintino Sella e almeno quattro Commissioni d'inchiesta parlamentare che in poco più di un secolo hanno incautamente detto, proprio come ha fatto lui, che occorreva andare a rendersi conto di persona. Per la verità, la Commissione Depretis, che viaggiò in Sardegna dal 24 febbraio al 25 marzo 1869, non si segnalò - come ha potuto accertare lo storico Francesco Manconi - per particolare zelo. Quinti- no Sella, invece, fece al ritorno una proposta intelligente: separare la proprietà del suolo, oggetto di un antico sistema feudale, da quella del sottosuolo, dove giacevano carbone e quant'altro. Non dubitiamo che l'onorevole Gnutti sarà all'altezza del suo più celebre predecessore, ma - pur odiando il ruolo dei profeti di sventura - sentiamo di dovergli dire che non sarà certo sulle miniere sarde che egli potrà consolidare e dimostrare il suo credo nel «liberismo in economia». Non lo diciamo per disfattismo, ma perché le circostanze della vita ci hanno portato anni indietro a studiare un po' la storia delle miniere sarde. Ci siamo convinti che la sempiterna sciagura mineraria nasce non ai tempi del buon Quintino, ma già nella fase sarda dell'orogenesi caledonica, avutasi per l'appunto tra il Cambriano superiore e il Devoniano, quando un «convoglio mineralizzante», come lo chiama il professor Francesco Boggio, che se ne intende, depositò nei calcari e nelle dolomie minerali di piombo, zinco, argento, bario, molibdeno e quant'altro. Sapete perché fu una sciagura geologica? Perché tutta quella roba, alla fine, era di cattiva qualità. Non ve la faremo troppo lunga e, saltando dal Devoniano all'Ottocento, riveleremo all'onorevole Gnutti che già nel 1832, sotto i Savoia, la gestione delle miniere sarde passò direttamente allo Stato, l'orrendo Stato che i leghisti come lui considerano l'origine di tutte le sciagure. Limitandoci comunque a questi centosessant'anni e escludendo i periodi di gestione privata (generalmente di società straniere), si può calcolare quanto ha perso lo Stato italiano per mantenere aperte le miniere del Sulcis tanto tempo? Noi non siamo capaci di farlo, ma se l'onorevole Gnutti lo sarà, se riuscirà a portare al presidente Berlusconi una risposta, allora anche lui forse passerà alla storia come Quintino Sella. Ma non per questo - ne stia certo - potrà portare a Bossi lo scalpo dello statalismo, che - perfido - si annida dal tempo dei tempi tra Gonnesa, Bacu Abis, Nuraxi Figus, Cortoghiana. Dimentichiamo di citare Carbonia, ma non fatecene una colpa, perché quella città mussoliniana fu fondata soltanto nel 1938. Per farvela ancora breve, dopo la prima guerra mondiale le miniere sarde, come al solito, sono in crisi e Mussolini pena anni e miliardi per pagare i salari a quei lavoratori generosi e dalla faccia scolpita che in Sardegna chiamano dagli anni del fascismo minadoi dottoi, cioè minatori dottori, nel senso che la loro condizione di vita è superiore, pur nella semi-indigenza, a quella degli altri strati sociali. Per carità, le mille o duemila famiglie che rischiano oggi il loro reddito se il governo di destra non farà almeno quello che avevano promesso i turpi governi «consociativi», hanno tutte intere le loro ragioni di protesta, altro che aristocrazia operaia. Ma bisogna pur raccontare a Gnutti e a Berlusconi, per ragioni opposte, che, all'inaugurazione di Carbonia, Mussolini pronunciò queste parole: «Oggi, il 18 dicembre dell'anno XVII dell'Era Fascista, nasce il più giovane comune del Regno d'Italia: Carbonia... Sotto la nuda scorza della terra, l'immensa ricchezza dell'autarchico carbone italiano, non inferiore ai carboni stranieri, che si chiamerà 'Carbone Sulcis', attendeva le squadre dei minatori». Miracolo: «Quando dodici mesi or so- no, appena giunsero qui i primi disegnatori che - affermava il Duce con sintassi un po' zoppicante - dovevano tracciare le linee del nuovo comune, essi trovarono una landa quasi completamente deserta: non un uomo, non una casa, non un sentiero, non una goccia d'acqua, solitudine e malaria». Ma quando quei benemeriti minatori di Carbonia il 31 marzo 1946 votarono compatti al referendum istituzionale sulla Repubblica, si meritarono il soprannome di Stalingrado sarda. Stavolta, nella Stalingrado di Sardegna i blazerati forzaitalisti hanno strappato un deputato e un senatore, mentre a Cagliari spopola il senatore Valentino Martelli, quell'ex cardiochirurgo che gira in Rolls Royce (ma questo sarebbe il meno per i cazzuti minatori), famoso soprattutto per aver sedotto - con peraltro limitata esclusiva un'erede della famiglia reale. Riassumiamo dunque la questione: c'è un governo di destra che promette iperliberismo: il suo presidente, alla prima occasione, si precipita a rassicurare quei bravi caschi gialli delle miniere, assistiti da secoli. Protestano i leghisti e qualche altro, tutti quelli che hanno promesso: mai più una lira di denaro pubblico per lavori fìnti, come quello dei minatori del Sulcis. Ma il presidente liberale e liberista - incontenibile - scende in ! piazza inopinatamente con i minai tori del Sulcis, gli sorride, li abbraccia, ne fa - povero Gnutti - gli oggetti dell'assistenzialismo e dello statalismo non solo della prima Repubblica t insociativa, ma an- che della giovane seconda Repubblica liberista. E sputtana un po' tutto, visto che, a questo punto, non potrà fare a meno di buttare, tra Gonnesa e Carbonia, qualche migliaio di miliardi. Ma tant'è, per il presidente del Consiglio il consenso - lo garantiscono i conoscitori - vale più di qualunque ideologia. Viviamo un paradosso? Mah, certo assistiano alla singolare storia del leader del primo governo liberista della seconda Repubblica, il quale corre, inconscio e garrulo, a rassicurare proprio i minatori sardi, cioè l'emblema, pur dignitosissimo, dell'italico assistenzialismo. Come se il governo forzaitalista fosse catturato in tutto e per tutte dal socio post-fascista Gianfranco Fini, che forse - ma non ne siamo sicuri - ricorda il famoso discorso di Carbonia del 1938. Quei bravi compagni di Carbonia, che adesso hanno votato il loro fascinoso doppiopetto forzaitalista, pur nel rispetto immarcescibile dei compagni Angius e Cherchi (eterni referenti operai), oggi esultano: il compagno presidente, con il sorriso di porcellana, si affaccia virtualmente sotto la Colonna Antonina, li protegge, li garantisce, litiga - se occorre - con la feccia leghista, paralizza dietro il tavolo a ferro di cavallo quel povero Gnutti, perché lui non può vivere senza consenso. Chissà che cos'è successo. Forse il capitalismo non he più nemici: si discute soltanto tra quello americano, più duro, e quello renano, più morbido, come li definisce Michel Albert: capitalismo contro capitalismo. Se non fosse che il capitalista presidente del Consiglio ha - d'improvviso - qualche impropria reminiscenza operaista, che suscita le scalmane di Bossi e di Gnutti. Ricordate Bisaglia, il Principe dei dorotei morto, poveretto, in un incidente marino sullo yacht della sua signora nella baia di Portofino? Tutto ammorbidire, tutto salvare, tutto ricompattare, nell'interesse supremo della Repubblica. Compresi quei lavoratori di Carbonia, magari oggi cari al cuore di Fini - ricordate il discorso del Duce nel 1938? - anche se votano per Bertinotti. Nessuno li caricherà con i poliziotti a cavallo al modo di Margaret, perché saranno loro, forse proprio loro, aUa fine, a legittimare a incarnare la seconda Repubblica berlusconiana. Alberto Staterà Il governo è diviso sul «carbone malato» Art ■ .. -. ... -v't 4 4- - > ii'-: Il ministro dell'Industria Vito Gnutti prende tempo sui fondi per la miniera Da sinistra un gruppo di minatori e (a fianco) gli impianti del Sulcis