Un mito che torna uomo di Gian Paolo Ormezzano
Un mito che torna uomo Un mito che torna uomo Pantani: non ho sbagliato, riproverò LES DEUX ALPES. Sul Colle dell'Agnello, a 2748 metri, appena 10 di meno dello Stelvio, c'è il confine fra Italia e Francia. I gendarmi francesi hanno fermato a poco dalla cima i cicloamatori italiani, che ad un certo punto facevano scoppiare di gente l'ultimo chilometro, e che perciò sono stati costretti a scendere, per sparpagliarsi più in basso, su placche di neve o dando le spalle a un costante mezzo burrone, a seconda del tornante su cui decidevano di sostare. Su questo andirivieni coatto di centinaia di persone ai limiti dell'asfissia, dell'infarto, dell'aneurisma, dell'ictus (il sole era fortissimo), sono arrivate dal basso le notizie dell'attacco di Pantani a 8 chilometri dalla cima. E allora la nobile gente del ciclismo testimoniale, quella che se non vede il corridore con i suoi occhi non crede che esista, ha cominciato a saltellare, a scrivere sulla neve, con ogni mezzo, «Marco sei un mito». Il mito inseguiva Zanini, Mejia, Buenahora, Arrieta e Abdujaparov - quest'ultimo fatto pazzo dal sole e convinto di essere uno scalatore - e dopo la salita tremenda scollinava con Pagnin a 2'50' da loro, e in vantaggio di 1 ' su Roscioli e di 1 ' 15' su Berzin e Indurain. Un metro dentro la Francia e già non c'era quasi nessuno ai bordi della strada, e via tutti i cartelli pantaneschi, era finito quel mulinare di braccia di tanta gente, a fargli vento di gloria. E invece ecco il vento vero, che lo accompagnava sino all'Izoard e oltre, lo torturava anche, lui primo sul colle consacrato dal cippo a Coppi e a Bobet, lui con Buenahora, vantaggio di l'50' su Berzin e Indurain, ma lui già finito almeno nei confronti del se stesso mito: e infatti dopo 70 km onirici Pantani si rialzava, lasciava andare via Buenahora, aspettava i nemici. Fra qualche riga gli faremo di¬ re la sua verità. Ma l'altra verità è che Marco Pantani non poteva non attaccare da lontano, era stato comandato a questo, tutta la Val Varaita si era fatta pazza di lui con urla, preghiere e cartelli, un comandamento, un'ingiunzione, un ordine, per lui un dovere Bisogna tornare molto indietro per riscontrare una si¬ mile convocazione di popolo, registrare una simile delega: diciamo ai tempi di Coppi, senza paura di bestemmiare troppo. Marco Pantani non ha potuto dire queste cose, dire che non poteva non commettere la splendida foiba tattica. Ha invece detto: «Considerata l'altimetria della tappa, soltanto l'Agnello poteva servirmi per un attacco: adesso anche l'Izoard ha curve disegnate morbide, e quanto al Lautaret e alla salita finale sono scherzi di montagne. Non potevo sapere del vento, si capisce. Non potevo neanche sapere che Berzin non sarebbe rimasto solo, cioè che Argentin lo avrebbe assistito riuscendo a rimanere con lui. Io potevo soltanto sperare di isolare Berzin, Argentin lo ha salvato da me, Indurain lo ha risparmiato. Lo spagnolo ha corso per il 2° posto, sperando di prendermi qualcosa sulla finta salita finale». E ancora: «Argentili mi ha fat¬ to tanti complimenti. Non si vince il Giro con i complimenti, ma sono sempre importanti. Non lo si vince neanche con i cartelli amici: credo che pochi altri corridori ne abbiano visti fiorire quanti ne ho visti io». Più rassegnazione che rimorsi. Anzi: «Non credo di avere sbagliato niente, con i miei capi avevamo previsto tutto bene, anche le tirate di Chiesa all'inizio della salita. Non ho parlato con Chiappucci, prima di scattare, semplicemente perché non ce n'era bisogno. Ho il cuore in pace, ce lo abbiamo tutti. Ho finito stanchissimo, chiaro che ritenterò: ma se non ce la farò, sarò lo stesso contento di me». Oggi andando al Sestriere sarà interessante valutare il grado di fioritura dei cartelli per Pantani: forse ci saranno meno invocazioni al mito, più applausi all'uomo. li Coni e la Fidai hanno protestato contro la concessione dell'impianto atletico di Caracalla alla disputa dei Giochi senza Frontiere. I romani lì almeno giocavano soltanto a palla, mentre adesso si vogliono fare cosacce sportive di una empietà davvero - lo dicono le parole stesse - senza confini. Gian Paolo Ormezzano
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