Matteotti l'annunciazione nera di Giuseppe Mayda

l'annunciazione nera Settant'anni fa l'assassinio che spianò la strada al fascismo e distrusse la democrazia Settant'anni fa l'assassinio che spia l'annunciazione nera E' FACILE UCCIDERE LA LIBERTA' ION il passare dei decenni il I ' delitto Matteotti diventa I l'episodio chiave per capire 1 i il fascismo italiano nella \ài sua specificità ed evoluzione. E' stato il momento della verità, della irreversibilità, della strada autoritaria intrapresa dal fascismo, del ruolo unico e determinante della personalità di Mussolini, ma anche dell'impotenza dell'opposizione democratica. Con incredulità ripercorriamo oggi la cronaca politica dei mesi compresi tra il giugno 1924 e il gennaio 1925. Sono palpabili lo sdegno, la paura, l'attesa di gran parte della popolazione; lo sconcerto, le divisioni interne al gruppo dirigente fascista e nazionalista ma soprattutto l'incapacità delle forze democratiche, divise, inconcludenti, sospettose, incapaci appunto di trasformare lo sgomento del Paese in una proposta politica. Le spiegazioni che gli storici ci forniscono per questa impotenza sono molte. Non da ultimo era molto avanzato il livello di complicità delle forze post liberali-nazionaliste nei confronti del fascismo. Ci sono comunque alcuni dati certi che è bene ricordare oggi, a fronte di confusi dibattiti: 1) il fascismo come regime antiliberale si costruisce poco alla volta, pezzo per pezzo, con una progressiva opera di restrizione dei diritti politici e civili, avendo il suo principale punto di arrivo nelle misure annunciate da Mussolini il 3 gennaio 1925. 2) Da allora «ebbe inizio quello che fu chiamato "giro di vite" e la dittatura, sino allora considerata come fatto transitorio, espediente di emergenza, cominciò ad assumere aspetti diversi. Cominciava il regime» - sono parole del fascista storico Dino Grandi. 3) Il fascismo diventa finalmente «se stesso» realizzando questo processo autoritario e immettendo in esso molta cultura antiliberale, tipica del nazionalismo ad esempio. Il fascismo da solo non ce l'avrebbe fatta con le sue forze né culturalmente né politicamente. Non è un caso che nei Taccuini mussoliniani di Yvon De Begnac la sfida e la crisi, anche personale, di Mussolini di fronte al delitto Matteotti siano superate contando psicologicamente e culturalmente su un personaggio come Alfredo Rocco. A descrivere quella «tragica estate del 1924» ci sono pagine impressionanti per schiettezza e brutalità: «Rocco sapeva dei molti contatti, anche di fascisti, con la Corona, aventi il fine di democratizzare il fascismo. Questo piccolo coro di voci bianche faceva il controcanto ad un altro gruppo di miei moderatissimi ex amici (è Mussolini che paria in prima persona) i quali avanzavano la pretesa non di "riformare" lo Stato ma di "riformare" il fascismo, quasi che il fascismo non fosse già Stato, o non intendesse divenirlo. Rocco era di ben altro avviso. Esortava ad avviare alle fogne l'immondizia politica che ormai invadeva le strade». Inutile dire che «l'immondizia politica» erano le forze democratiche dell'Aventino. Mussolini ha preso alla lettera il suo consigliere. I post fascisti di oggi che hanno idee molto confuse sulla storia del nostro Paese e favoleggiano di potenziali democratici interni al fascismo storico, che sarebbero stati paralizzati dalla presenza del comunismo, dovrebbero andarsi a leggere queste pagine mussoliniane. Il consiglio naturalmente vale anche per chi conserva una memoria antifascista. Ma le ragioni sono opposte: per capire come sia facile colpire a morte una democrazia. Gian Enrico Rusconi ETTANT'ANNI fa, nel pomeriggio di martedì 10 giugno 1924, il deputato socialista Giacomo Matteotti fu aggredito, rapito e ucciso da sicari fascisti mentre usciva dalla sua casa di Roma in via Pisanelli 40, vicino al Tevere. Gli assassini erano Amerigo Poveromo, Albino Volpi, Augusto Malacria, Giuseppe Viola e (forse) Filippo Panzeri; li comandava il fondatore del fascio di Firenze, Amerigo Dùmini, che amava presentarsi dicendo: «Piacere. Amerigo Dùmini. Undici omicidi». Quella squadracela, dipendente dall'entourage di Mussolini (e cioè il segretario amministrativo del partito fascista, Marinelli, il segretario particolare del Duce, Rossi, gli uomini dell'ufficio stampa del capo del governo) si chiamava «Ceka»: all'inizio aveva preso a prestito il nome della polizia bolscevica del 1917 ma, in seguito, era stata conosciuta allusivamente come «la Ceka del Viminale» perché l'aveva voluta Mussolini per spiare i partiti e i politici contrari al fascismo e colpire gli avversari più temuti con violenze mascherate in modo da assicurare l'impunità a sicari e mandanti (e vent'anni dopo Dùmini confesserà, in una testimonianza rimasta finora inedita: «Fu Mussolini a convocarmi a casa sua, a Palazzo Tittoni, per nominarmi davanti a tutti capo della Ceka. I suoi ordini li ricevevo direttamente da lui; me li mandava su foglietti verdi, scritti a macchina e non firmati. Solo una volta c'era una "m" minuscola». Matteotti, 39 anni appena compiuti, avvocato di Fratta Polesine (Rovigo), padre di tre bimbi - Giancarlo di sei anni, Matteo di tre e Isabella di uno - era il più battagliero fra i deputati dell'opposizione. Il 30 maggio, alla Camera, aveva chiesto l'annullamento in blocco delle elezioni politiche dell'aprile 1924 inficiate - disse - dai brogli e dalle intimidazioni dei fascisti. Per tutta risposta Mussolini dichiarò il primo giugno che quelle accuse «meritano qualcosa di più tangibile», in privato ordinò che lo liberassero di Matteotti («levatemelo dai piedi», «un uomo così non dovrebbe circolare», «è un uomo da accoltellare») mentre il Popolo d'Italia scrisse che «se l'onorevole Matteotti si troverà un giorno con la testa rotta dovrà ringraziare solo se stesso». Matteotti sapeva di essere in pericolo e lo confidò alla moglie Velia uscendo di casa quel 10 giugno, verso le 16,30, per recarsi a un cir- colo nautico («So che i fascisti stanno preparando qualcosa»). Infatti, appena sceso in strada e imboccato il Lungotevere Arnaldo da Brescia, gli squadristi della Ceka, appostati da un paio d'ore, gli balzarono addosso trascinandolo a forza su una Lancia a sei posti con Dùmini al volante. L'auto si diresse verso Ponte Milvio e, mentre Dùmini suonava il clacson a distesa per soffocare le urla di Matteotti, i sicari si accanirono sulla vittima. Nella lotta il deputato, che era riuscito a gettare dal finestrino la tessera rossa di parlamentare, sferrò a Volpi un calcio nel bassoventre: lo squadrista, inferocito, lo colpì con una coltellata sotto l'ascella sinistra recidendogli l'arteria e Matteotti morì dissanguato. I sicari compirono un lungo giro nelle campagne e quando era buio si fermarono nel bosco della Quartarella, a Reano Flaminio, paese distante 23 chilometri da Roma. Servendosi degli attrezzi dell'auto, scavarono una buca lunga poco più di un metro e larga 40 centimetri, spogliarono il cadavere e lo seppellirono sotto un sottile strato di terriccio. Lì due mesi dopo, il 16 agosto, il brigadiere dei carabinieri Caratelli, passeggiando col suo cane, scoprirà casualmente la buca con i poveri resti di Matteotti. La sera stessa del delitto Dùmini corse al Viminale e consegnò a Marinelli, perché li portasse a Mussolini, la borsa sottratta a Matteotti e un pezzo insanguinato della tappezzeria della Lancia - prove dell'avvenuta uccisione - e ne ebbe in cambio una grossissima somma, 30 mila lire, da spartire fra gli uomini della Ceka con l'ordine di lasciare Roma. Presto però circolarono voci sulla misteriosa scomparsa di Matteotti, denunciata anche dalla fa¬ miglia; Mussolini disse ai suoi collaboratori di tenere la bocca chiusa («Dovete stare zitti. Se mi salvo io, vi salverete tutti; altrimenti andremo tutti all'aria!), ma l'Italia capì subito chi era il mandante. Il repubblicano Chiesa, alla Camera, lanciò la tremenda accusa contro il Duce («Lei non parla perché è complice») e Vittorio Emanuele III, a un pranzo in onore di Ras Tafari, futuro Negus di Etiopia, ricevette un biglietto anonimo che passò a Mussolini. Diceva: «Maestà, l'assassino di Matteotti è seduto accanto a Lei. Lo consegni alla giustizia». La crisi politica - che avrebbe condotto l'opposizione alla vana se¬ cessione dell'Aventino - divenne acutissima e, sotto l'ondata di collera e di indignazione che scosse il Paese, il fascismo e Mussolini sembrarono per un momento annientati. Ojetti annotò nel suo diario che «i morti sono due, Matteotti e Mussolini». Per difendersi il Duce sacrificò i collaboratori più compromessi, e anche lo stesso capo della polizia, il gen. De Bono, quadrumviro della marcia su Roma. L'auto del delitto fu rintracciata e dalla Lancia si risalì ai sicari che vennero arrestati con i complici (ma soltanto Dùmini, Volpi e Poveromo saranno condannati nel '27 a 6 anni ciascuno per omicidio preterintenzionale; poi, con un condono di 4 anni, torneranno subito in libertà). Mussolini, dopo il primo sbandamento (confessò in seguito che uomini risoluti avrebbero potuto dare il via a un'insurrezione da cui il fascismo sarebbe uscito distrutto), reagì mobilitando la Milizia e le squadre d'azione e chiudendo la Camera per cinque mesi. La monarchia lo appoggiò e il Re, parlando in quei giorni con la medaglia d'oro Bruno Gemelli, disse: «So che Mussolini mi è fedele e che non è responsabile di quanto è avvenuto. Siate certo che rimarrà al governo». Dùmini, scarcerato, andò in giro dicendo che il Duce era il mandante del delitto; arrestato e inviato al confino, cambiò idea, tacque e cominciò a chiedere soldi: secondo i documenti riservati del ministero dell'Interno, fra il '27 e il '43 spillò a Mussolini una cifra enorme, 2 milioni e 171 mila lire (un miliardo e mezzo di oggi), che lo storico Denis Mack Smith giustamente ha chiamato «il prezzo del silenzio». Giuseppe Mayda //Popolo d'Italia aveva scritto «Se avrà la testa rotta dovrà ringraziare se stesso» In alto a destra: parlamentari socialisti commemorano Giacomo Matteotti. Qui sopra: il deputato ucciso il 10 giugno. A destra: si recupera il cadavere