I ghiribizzi di Quasimodo
I ghiribizzi di Quasimodo I ghiribizzi di Quasimodo UNO scherzo. A cui evidentemente si appassiona. Non aveva mai preso in mano un pennello prima, il poeta Quasimodo. Certo, era abituato a frequentare amici pittori, per loro scriveva volentieri anche recensioni per giornali e riviste, spesso si occupava dello scritto in catalogo: ed allora gli artisti gli regalavano un quadro. Erano gli anni della Milano impegnata, del dopoguerra freddo, delle dispute fra astrattisti e neo-realisti zdanoviani (nelle polemiche interveniva anche Togliatti, magari sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castigha, e gli amici di Quasimodo si chiamavano Vittorini, il critico Valsecchi e poi Birolli, Migneco, Guttuso, Cantatore, i sodali di Corrente, insomma, che passeggiavano tra la Brera maudite e la borghesissima pasticceria Tre Marie. Viene a trovarlo un altro amico, Alberto Lucia: invece delle paste ha tra le mani una scatola d'acquerelli, che deve consegnare ad un altro amico-letterato, il surrealista nostrano Beniamino Joppolo, che al contrario ha già da anni dimestichezza con i pennelli. Joppolo, il soggettista di quei Les Carabiniers, che Godard avrebbe portato sullo schermo: profeta della pittura spaziale, che infuocherà Fontana e che lambirà il nuclearismo di Baj e Dova. E' immaginabile la scena: tornano a discutere come sempre dell'argomento del giorno, la battaglia tra figurativi ed astrattisti, la solita battuta: «Quel Malevic lo saprei fare megho io», «Quegli orrendi scarabocchi». Ed è comprensibile che nella battaglia delle arti, siamo nel '53, Quasimodo stesse dalla parte dell'engagement di Guttuso, contro il neo-formabsmo di Birolli. Non dimentichiamo che alla Biennale del '48, oltre allo scandalo Picasso aveva fatto anche la sua comparsa l'astrattismo trasognato, ludico-musicale di Klee. Allora Quasimodo viola quella scatola magica di colori e prende a tracciare sulla carta (curiosamente, già pronta e così sofisticata, giapponese) dei segni, golosi ed infantili, una sorta di Art Brut domestica e provocatoria: «Vedi com'è facile!». Ma succede quasi un miracolo: il gesto polemico lascia spazio alla passione. Quasimodo prende gusto: e le «tracce» grafiche si moltiplicano, si fanno ben ventisette opere, con una loro autonomia, un loro «respiro» conchiuso. Dal gioco alla messa alla prova. Per anni, quel mazzetto di carte segrete, è rimasto annegato nella memoria dell'amico Lucia: si conosceva l'aneddoto, ma non s'erano mostrate mai. In occasione del venticinquesimo anniversario della morte, in concomitanza anche d'una affettuosa mostra romana dedicata al rapporto di Quasimodo con i suoi pittori (gli amici che l'hanno ritratto, come Manzù e Guttuso, Montale e Messina, ma anche i dedicatari di opere della sua ricca collezione, da De Pisis a Morandi, da Cocteau a Sironi, da Xavier Bueno a Usellini), mostra che ha lasciato traccia in un ben articolato volume edito da Consulenti del Lavoro, il figbo Alessandro ha pensato di raccoghere quelle gouache della sfida in un prezioso volume, quasi in fac-simile. Si chiama La visione del sogno, per i tipi di Sintesi, e confronta quegli esperimenti grafici con alcuni versi del pa-
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