PROFILI D'ARTISTA

PROFILI D'ARTISTA PROFILI D'ARTISTA Nella galleria di Goffredo Parise PENSAVA il poeta inglese John Keats che il poeta è «la più impoetica delle creature», che è questa sua mancanza, questa sua vergognosa inappartenenza alla bellezza e all'arte che v e lo spinge appassionatamente: fa versi, il poeta, per rimediare alla propria pochezza, perché ci sia fuori, nel mondo delle forme, quello che non c'è dentro, nella sua propria miseria e nella miseria informe delle fisionomie e dei destini umani. Un pensiero essenziale attraverso il quale il moderno si scrolla dall'eredità romantica e impara a distinguere ciò che è «artistico» da ciò che è arte. Ma anche un pensiero spiacevole. Contro il quale molti - i grandi dandies tra Otto e Novecento soprattutto hanno combattuto, non in nome di diverse teorie, ma in nome di se stessi in opposizione assoluta aU'iiTedirnibile fangosa e antiestetica materia del vivere. Tra questi, c'è anche uno scrittore del nostro tempo, un dandy senza divisa, Goffredo Parise. Parise, anzi, era un estremista, come dimostra un libro intitolato Artisti, stampato alcuni anni fa, prima che lo scrittore morisse, da una piccola, dandistica appunto, casa d'edizione «Le parole gelate», e ristampato oggi in un'edizione accresciuta e completata dalle attente cure di Mario Quesada, sotto la sigla editoriale di Neri Pozza, che fu quella del primo romanzo di Parise Il ragazzo morto e la cometa (pp. 148, L. 28.000). Il libro raccoglie gli scritti sull'arte di Parise, recensioni, presentazioni al catalogo. Ma, appunto, non di scritti sull'arte si tratta, e non di scritti sulla materia dell'arte, la sua unica epifania, l'opera, ma di scritti sugli artisti, che sono per lui la quintessenzialità, per così dire dell'arte stessa. Parise degli artisti non tralascia nulla, così come un connaisseur d'altri tempi dalla pennellata che si mozza sulle falangi di una mano di santo in qualche sperduta tavola d'altare sapeva riconoscere con certezza e senza timore di smentita un maestro piuttosto che il suo allievo o il suo seguace. Come lo scrittore ritraeva fisionomie e personalità, luoghi e tecniche dei suoi preferiti da De Pisis a Schifano, da Tono Festa a Giosetta Fioroni Enzo Cucchi (foto di Amedeo Volpe) e L'esempio perfetto di questa metodologia critica è la descrizione del l'opera-Schifano: «E' un uomo di trent'anni, di tipo sommariamente mediterraneo, se non arabo. In riposo, il suo corpo, alto circa un metro e settanta, del peso di cinquantacinque chili, visto da angolazioni e distanze diverse, rivela innanzitutto un languore felino, innocente e attonito. Come un piccolo puma di cui non si sospetta la muscolatura e lo scatto». Oppure quella dell'opera-De Pisis: «Sudava moltissimo e non fermava i pennelli che per pochi istanti. Guardava incessantemente la tela con una sorta di voracità erotica, con gli occhi socchiusi, la mano e i permeili non si fermavano mai, saltellavano dalla tela alla tavolozza con qualche cosa di agilissimo, leggero e volante, che, ricordo benissimo, mi fece pensare chissà perché alla golosità e alla distrazione di un passero o di un tordo quando beccano». Naturalmente, non sono solo le fisionomie, meglio se zoomorfe, che lo affascinano, ma anche i luoghi dove l'opera entra, le geografie spaziali e sociab, e persino le qualità morali, come quando scrive della «bontà» di Giosetta Fioroni, la pittrice che conobbe all'inizio degli Anni Sessanta nel gruppo della pop romana e che divenne la sua compagna della vita, come di «una quasi medianica penetrazione di "quanto c'è di buono"... nei rapporti umani e in quelh artistici, con la materia dell'arte». Da ragazzo, quando aveva diciassette-diciotto anni, Parise dipingeva: quadri con la stessa atmosfera chimerica del Ragazzo morto e la cometa. Nel libro i quadri sono riprodotti - è vero, come lui stesso sosteneva, che assomigliano a quelli della transavanguardia - accanto non alle opere degli artisti di coi parla, ma, com'è giusto, accanto ai loro ritratti, Schifano, Fioroni, Festa, Angeli, Twombly eccetera. Ora però una mostra che si è aperta a Roma cambia un po' le carte in tavola. Alla Galleria dell'Oca, che era uno dei luoghi magici di quello sciame di ragazzi colorati che Plinio De Marliis (foto di Enrico Castellani). A fianco: Parise a 17 anni apparvero allo scrittore, dopo Milano, «una liberazione», ci sono i quadri di Parise accanto ai quadri dei suoi artisti. E mi sembra che Parise in fondo si sbagliava, che quella qualità volatile e metamorfica che riconosceva nel profilo felino di Schifano o nel passo saltellante di Giosetta Fioroni sia, ora che qualcuno non c'è più e tutti, comunque, sono cambiati, la vera materia di quelle tele, che la fisionomia dell'artista e persino quella dei galleristi, dei mercanti, dei luoghi, sia in quel fuori che è l'opera e non in quel dentro che è la persona. E le opere se la cavano benissimo a parlare fra loro, e a riconoscersi, più delle persone: come per esempio, da un piano all'altro della galleria, la porta scura che si apre tra un rosso e l'altro di una Annunciazione del giovane Goffredo e la Porta rossa di Tano Festa, luoghi di passaggio, verso una comune, misteriosa destinazione, per sempre interdetta a chi sta a guardare.

Luoghi citati: Milano, Roma