STRINDBERG, UN VAMPIRO NEL PROFONDO NORD di Luigi Forte

STRINDBERG, UN VAMPIRO NEL PROFONDO NORD STRINDBERG, UN VAMPIRO NEL PROFONDO NORD Escono i romanzi del grande drammaturgo nella trama di un giallo, e fobie e terrore diventano indispensabile pane quotidiano. Questi romanzi vagano fra demenza, ingiustizie, furie omicide, sohtudini ed esili dell'anima, fisico orrore di ogni contatto umano, vittime e vampireschi fantasmi. Sono il frutto di ossessioni permanenti, di manie di persecuzione, di rapporti e convivenze feroci. Gettano ombre sulla mente che li ha concepiti, ma ne fanno anche un osservatorio di traslucida perseveranza, di totale rigore fino ai limiti dell'autodistruzione. Come l'intendente Borg di In mare aperto (1890), superuomo tutto celebrità e pensiero, destinato a soccombere nelle solitudini marine, anche Strindberg «ha il dono di vedere la coerenza in fondo al caos». Certo non la pratica con la priopria scrittura: i romanzi sembrano infatti usciti dalla penna IA storia è un esile filo leggero: un amore misterioso, languido. Nato per caso in una Mosca alla deriva, lontana ormai dalle grige certezze delle ancore brezneviane. E che fluttua lentamente sulle onde, in cerca delle spiagge promesse dalla perestrojka. Nulla è certo, tutto è vago, ogni cosa è in avvenire. Persino la neve non cade più con la forza posseduta sotto i cieli del comunismo. Natasha ha paura. Si sente minacciata, tradita. Sola. Annuncia su Interkontakt il suo disagio: «Russa di sangue nobile, colta, sensibile, affascinante, amante delle passeggiate, dei film francesi, dei romanzi d'amore, delusa dalla politica, cerca un amico straniero, preferibilmente scrittore o giornalista, per dettargli la propria autobiografia, e salvarsi la vita». L'ascolta solo lui, il giovane corrispondente italiano, dal suo ufficio appoggiato a Kitaj Gorod, il vecchio quartiere degli intrighi e delle streghe, a pochi passi dal Kremlino. E' come il canto di una sirena: vorrebbe riempirsi le orecchie di cera, ma nello stesso tempo August Strindberg: la sua opera ndi una dozzina di autori diversi. Ha ben ragione la Kock: è come se lo stesso narratore avesse dato vita a Gordon Pym, il Circolo Pickwick o Le memorie del sottosuolo. Lo scrittore vampiro sfrutta la stessa arte del romanzo, succhia la linfa di ogni trasformismo: è un Proteo che ha fatto della forma uno scandaglio per il mondo. Toghe dalle mani dei classici dell'800 una materia dilagante e infetta e la lascia, dopo ampia vivisezione, all'indifferenza protocollare di un Kafka o allo stranimento di un Joyce. Una cosa è certa: Strindberg non fu solo l'innovatore del teatro europeo con il suo tardo stile onirico e astratto (Verso Damasco, Sogno) riciclato in mille modi dalle avanguardie, ma anche un maestro del romanzo a venire. Per la disinvoltura, intanto con cui inzuppa la materia narrativa nelle gesticolazioni autobiografiche, e per il gusto del pastiche: lettere, diari, aforismi, spezzoni eterogenei si affastellano in un'unica rappresentazione. Oppure egli progetta a tavolino avventure mentali, esperimenti con punti di vista, le ((vivisezioni», come le chiama, (Ciandala o In mare aperto) analisi di stati mentali patologigi, dove il racconto è spinto alle estreme conseguenze, verso abissi imprevedibili, testimonianze di uno smarrimento senza ritorno. E poi ci sono gli studi di botanica e chimica iniziati da giovane e proseguiti più tardi, nei terribili anni parigini, tra il 1895 e il '97, quando, fra gravi privazioni e un ostinato isolamento, Strindberg cerca di scomporre elementi per dimostrare l'unità della materia e la «grande coerenza del Tutto». La mistica gli dà alla testa, l'alchimia lo appassiona, la vita lo incalza e debilita. Vagola fra stanze d'albergo di infimo ordine, matu- ei «Meridiani» Mondadori rando in sé la vocazione scientifica di Bouvard e Pécuchet costruita su manuali di botanica, geologia, su false intuizioni subliminali, su paranoie che proiettano nemici e oscure potenze come ombre nei propri vagabondaggi. Ma dietro il velo misticheggiante scopriamo un'ottica sperimentale che si esercita intorno al problema della visione: quella suggerita da Borg, ad esempio, nel romanzo In mare aperto, ai pescatori dell'isola per interpretare mare e natura. Il suo occhio è attratto da forme inusuali, concrezioni che abbozzano la genesi del mondo. Il naturalista Borg cerca, come Strindberg, regole dietro la casualità, idee oltre i fenomeni. E' ossessionato dalle apparenze, pungolato dal bisogno di una «infinita coerenza» svanita fra gli anfratti del Disordine. Sì, questo scrittore radicale e insofferente, bohémien e utopista, naturalista e mistico, cercava una tra¬ ma, un disegno dietro l'episodicità della vita. Giacché il mondo gli appare sempre più un disturbo fisico, una malattia insopportabile. In tale trappola finiscono i suoi eroi, minacciati dai fantasmi della follia come il professor Tòrner in Ciandala (un testo che parrebbe uscito dalle mani di Poe), o angustiati da una società che tutto azzera e omologa, pronta a celebrare pennivendoli e ipocriti, rampanti e cinici (La Stanza Rossa non sarà mica un romanzo dei nostri giorni?). E lui, di fronte a tali pericoli, continua ad esercitare quel suo sguardo tagliente e obliquo, che ricordiamo da ritratti e fotografie: oltre la superficie ruvida delle cose per coglierne le affinità, un denonimatore comune, una lieve sbavatura d'idea. E' una duplice messa a fuoco, un «astigmatismo mentale», secondo la geniale definizione della Kock. Cioè una vista sulle linee nitide dell'esperienza e sul riverbero astratto, mitico delle cose. Lui, l'eterno escluso, il ribelle, il reietto, tanto da titolare la propria autobiografia Il figlio della serva (sua madre Ulrika, morta precocemente di tisi, era stata cameriera in varie locande), lo scrittore che, come Kafka più tardi, sacrifica la propria esistenza alla scrittura, sceso nell'inferno escrementizio della modernità, cerca con l'angoscia del condannato un'uscita, uno scampo. I suoi personaggi tradiscono mitiche raffigurazioni, da Ismaele a Giobbe a Faust; contrapposizioni al marasma borghese. La sua vita è un gioco scenico per demonizzare potenze infernali che occhieggiano dai bordi della solitudine. Dal teosofo e mistico Swedenborg apprende che la dannazione non è un luogo, ma uno stato mentale: non bastano le metamorfosi né l'incessante gioco alla simmetria e all'ordine. Inutile raddrizzare candele sbieche o quadri storti, come pure usava fare. L'ordine resta un sogno e Strindberg un metafisico per disperazione che vagola fra le macerie e ascolta le voci deU'infinito. Sono i flussi di quella scrittura medianica elaborata nei tardi anni, che ha spostato l'io alla periferia della percezione a cerca corrispondenze e analogie oltre il mare della razionalità. Fermo e impettito, come il vecchio Askanius nel Capro espiatorio, ad attendere l'ultimo messaggio del Destino. Non prima d'aver pianto, lui August Strindberg, incallito nemico e ammiratore delle donne, alla notizia della morte della bionda Siri, la prima bistrattata moglie. Indossò una veste da camera nera e un foulard bianco, come quelli da frac. Era il carattere d'un folle geniale; strana miscela di malinconia profonda e di tremenda frivolezza. Luigi Forte

Luoghi citati: Damasco, Mosca