Il sindacalista venuto da Harvard

Self control fino all'ultimo, senza una lacrima Il sindacalista venuto da Harvard Self control fino all'ultimo, senza una lacrima £3 IL ROCCIATORE GENTILE SCHIANCIANO UCCEDE ai rocciatori. Chissà quante volte nelle scalate hanno piantato il chiodo in extremis, e la sonorità di quello schiocco gli ha riempito l'anima mentre a valle nessuno sentiva niente. Dev'essere così anche quando per l'ultima volta ti appresti a staccare il rampino dalla parete, è una sensazione che rimarrà soltanto tua. Ma se in questo momento nella mente di Bruno Trentin c'è qualcosa di simile, state certi che non se ne accorgerà nessuno. Nella sala gremita, con il discorso che conclude la Conferenza di programma della Cgil e il mandato del suo segretario generale, se ne va anche l'ultimo pezzo di storia del sindacalismo italiano. C'è un momento, un attimo solo, in cui il podio rischia di trasformarsi in pulpito: dura per quanto lungo e caldo è l'applauso che saluta il leader. Ma ad eliminare ogni increspatura pensa proprio lui, calibrando i toni su una freddezza appena un po' più algida del solito eloquio glaciale. Posati gli occhialetti, abbandonata la pipa, nel suo ultimo discorso da segretario Bruno Trentin non ricorda e non saluta, non rievoca e non rivendica, non ha trascorsi da rivalutare né scelte da rivedere nell'ottica del dopo. Parla di quello che bisognerà fare da domani, del vertiginoso salto culturale che i tempi impongono anche al sindacato, della difficoltà «di staccarsi dall'orso di peluche cui magari si dormiva abbracciati, per buttarsi nella ricerca rischiosa di nuove, più valide sicurezze». A sessantotto anni, il freddo rocciatore stacca il rampino e parla come se il suo lavoro di sindacalista cominciasse adesso. Dev'essere questo, quel che si definisce senso della storia. Chianciano 1989, Chianciano 1994: strano, come breve sia stata la parabola di un sindacalista laureato ad Harvard. Cinque anni fa, quando la crisi del sindacato cominciava a incrudelirsi, dissero che giungeva alla segreteria generale con due anni e mezzo di ritardo (causa la breve gestione Antonio Pizzinato). Non due soli, rilevarono altri. Lo schivo amante della montagna, l'aristocratico approdato nei primi Anni Cinquanta all'ufficio studi della Cgil - con un programma sorprendente: «studiare» - a giudizio di gran parte della sinistra assumeva la guida della Cgil dodici anni più tardi di quanto i tempi avrebbero richiesto, e molti si sarebbero aspettati. Enrico Berlinguer, per esempio: era stato lui a giudicare «uno spreco» la permanenza di Trentin nella Cgil con un ruolo subalterno a Luciano Lama. Lui ad aver inutilmente premuto per strappare l'ex leader dei metalmeccanici al sindacato e spingerlo verso la guida della politica economica comuni¬ sta. E Trentin a rifiutare, lui che era nella Cgil già con Di Vittorio e in vent'anni aveva finito col trasformarsi quasi in elemento del lessico nazionale. Eh sì, il pezzo di storia del sindacato che per l'ultima volta occupa il palco ha un bel respingere le celebrazioni, e condurre il discorso su toni sempre più misurati. Uno però ripensa a quel «Trentin-Carniti-Benvenuto» entrato nel linguaggio corrente come qualche anno prima il «Lama-Storti-Vanni», e immagina come suonerà fra un mese la triade «D'AntoniLarizza-Cofferati». Sente questo signore che riesce a tracciare sommesso il bilancio di un'epoca e tenta di ipotizzare i bilanci delle prossi¬ me, frenetiche stagioni. «Tutto si tiene - sta dicendo Trentin - le cose fatte nella propria epoca non negano quel che è accaduto successivamente, chiunque dovrebbe evitare la schizofrenia delle rimozioni totali. Come tutti dobbiamo uscire da quella cultura della dicotomia che serve solo a rimuovere un'analisi coraggiosa dei fatti, dei nostri errori. Se il mondo viene diviso solo fra buoni e venduti, nessuno mai riconoscerà di aver sbagliato, dunque di essere un venduto». No, davvero in quel discorso non c'è il minimo spazio per la commozione: anzi, ormai siamo oltre le due ore e l'analisi comincia a farsi alluvionale. Eppure fra il pubblico c'è gente che non perde una frase: un ragazzo di colore, soprattutto, pende letteralmente dalle labbra del leader. «Sa cosa mi è successo qualche anno fa? In Francia, alla scuola quadri della Confédération generale du travail, ho sostenuto anche un esame di lingua. Si trattava di tradurre un testo dal francese in italiano, e sa cosa riguardava, quel testo? Una biografia di Bruno Trentin...». A quella biografia mancano ancora molte righe, le più importanti: quelle che racconteranno come il segretario giunto con tanto ritardo alla guida del maggior sindacato italiano (e definito allora «di transizione») sia poi stato quello che è riuscito a pilotare la Cgil nella più delicata e difficile delle sue trasforma¬ zioni. E che adesso (volendo restare, dice, «nello stesso brodo») la spinge ancora più avanti. Sarebbe stato bello chiedere a Bruno Trentin se pensa che oggi, in questa Italie, pilotare le trasformazioni sia più facile per chi ha meno storia alle spalle. Non è stato possibile: anche nel giorno del saluto, il segretario rocciatore non ha accettato interviste senza domande e risposte scritte. Il solo commento che gli si è potuto strappare, al momento dell'uscita, è stato un lapidario: «In questa società dello spettacolo, le emozioni sono un sacrosanto diritto privato delle persone». Sarebbe stato bello anche chiedergli cosa pensasse del saluto che aveva preceduto il suo intervento, quello di Sergio D'Antoni, lungo intervento con strana citazione finale: D'Antoni aveva concluso con una poesia greca, nel paragone un po' avventuroso fra l'unità sindacale e Itaca. Bello. Adesso però chi lo cerca un nuovo Ulisse? Giuseppe Zaccaria L'ultima lezione «I tempi impongono di staccarsi dall'orso di peluche» Bruno Trentin con l'ex segretario della Cisl Pierre Camiti

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