CERCASI BUDDHA DISPERATAMENTE di Giovanni Bogliolo

CERCASI BUDDHA DISPERATAMENTE CERCASI BUDDHA DISPERATAMENTE Si riscopre il «maledetto» Morand monianze di una civiltà remota e quasi inaccessibile, ciò che Jàli ha saputo trovare - per la verità, grazie a un decisivo aiuto soprannaturale - dentro di sé. Forse questa è la quintessenza del buddhismo, ma è anche - sintetizzata nella formula finale: «Voler fare la propria scelta nell'ordine, o perfino nel disordine universale era la grandezza dell'Occidente, ma cedere, acconsentire alla propria sorte era senz'altro la grandezza dell'Oriente» - la constatazione della sostanziale impermeabilità dei due mondi contrapposti e del profondo radicamento delle loro etiche. Molto più significativo è il contributo che il libro può portare alla fortuna da tempo offuscata - ma ora, in Francia, soprattutto dopo la pubblicazione dei due volumi delle novelle complete nella «Plèiade», in costante rialzo - di Paul Morand. Buddha vivente è un romanzo, genere nel quale lo scrittore ha sicuramente brillato di meno o comunque molto più tardivamente - che in quello della novella, ma i temi e i motivi che UN altro Buddha. Stavolta però è un Buddha d'annata, il Buddha vivente di Paul Morand (a cura di Leopoldo Carra, Il Corpaccio, pp. 192, L. 24.000), concepito negli Anni Venti e riesumato oggi non tanto per rinvigorire una moda già languente quanto, si presume, per sfruttarla a beneficio di uno dei grandi scrittori dimenticati del nostro secolo che quella moda, e con ben altra interiorizzazione, aveva precorso. Modesto appare infatti il contributo che può apportare alle recenti fortune del Perfetto: il romanzo racconta le opposte e per un certo tempo intrecciate avventure di Renaud d'Ecouen, un giovane aristocratico francese che alla scuola di Spengler ha maturato un profondo disgusto per la civiltà occidentale e cerca la salvezza nell'Oriente, e di Jàli, principe ereditario dell'immaginario regno di Karastra, che invece si lascia tentare dalle sirene della velocità e del progresso e fugge in Occidente. Entrambi vanno incontro a delusioni cocenti: la Cina e la Cambogia fanno inorridire Renaud, che trova un Eden incontaminato solo nell'utopica Karastra; visto da vicino nella consuetudine quotidiana, il mondo occidentale si rivela all'ingenuo principe come un abisso di miserie, brutture e intolleranza. A lui però, nel cielo di Londra «incatramato e ridipinto di rosa sui bordi», in mezzo ad un «oceano di camini e di stelle» appare, come «un cerchio di insostenibile splendore», la visione salvifica del Buddha. Da quel momento, identificandosi con l'Illuminato, affronta una serie di esperienze che ricalcano quelle del principe Siddharta, ma sono come banalizzate e vanificate da un'umanità che manifesta la propria refrattarietà alla sua dottrina tanto con l'ostilità, la curiosità e il silenzio quanto con l'esaltazione di occasionali, variopinti seguaci, «donne di mezza età afflitte dalla coupcrose, zitelle denutrite che prendono Maeterlinck per un pensatore, intellettuali dai piedi lunghi che lo chiamano "Fratello", "Guida", "Lampada della Legge", [...] alcuni teosofi, sospettosi e invidiosi di tutti gli dei, dilettanti dello spiritismo, cacciatori di case abitate dai fantasmi, preti sposati, guaritori, ipnotizzatori». E così di prova in prova, a Londra come a Parigi, a New York come a San Francisco, fino a quando la sua purificazione non si sarà compiuta ed egli potrà sedere, finalmente distaccato e impassibile come il Buddha, sul trono di suo padre, sotto il parasole bianco a nove piani che è simbolo dell'onnipotenza. Dei due avventurieri dello spirito l'unico trionfatore è dunque lui, non perché a Renaud il romanziere riservi la duplice sconfitta del crollo di tutte le illusioni e di una morte prematura e inopinata, ma perché il francese è andato a cercare fuori di sé, nelle testi¬ Paul Morand hanno fatto di lui il più esemplare cantore degli «anni folli» ci sono tutti: l'esotismo, temperato di disincantato cosmopolitismo, il gusto dell' avventura, meglio se pericolosa e gratuita, il fascino della mondanità, l'ebbrezza di una corsa notturna su una Bugatti lucente, l'insofferenza verso ciò che è altro o non corrisponde a un suo aristocratico e mdefinito ideale di perfezione: gli ebrei, la «miscela di miseria, cattivo odore e tristezza» delle case dei poveri e tutte le manifestazioni della fragilità umana, la vecchiaia, la malattia, la morte. E c'è soprattutto quella scrittura nervosa, tutta accelerazioni ed ellissi, che aveva tanto colpito e un poco sgomentato Proust e che è diventata la sua cifra stilistica di homme presse, di scrittore di un mondo a cui la velocità ha assegnato dimensioni planetarie, di un'epoca che è diventata «un fuggi fuggi generale». Già Proust. L'ingresso, abbastanza tardivo di Morand in letteratura avviene nel 1921 sotto questo autorevole auspi¬ cio. Fino a quel momento il figlio del direttore dell'Ecoles des Arts Décoratifs ha pensato soprattutto a coltivarsi, a coltivare selezionate amicizie - oltre ,a Proust, Philippe Berthelot, Cocteau, Giraudoux -, a viaggiare in lungo e largo per l'Europa e a muovere rapidi passi nella carriera diplomatica. Ha dalla sua tutte le doti e tutte le fortune. «E' ricco come Creso e semplice come il buongiorno», dice di lui Cocteau. Quando diventa scrittore, Proust fa per lui quello che non ha mai fatto per nessun'altro: scrive una benevola introduzione a Tendres Stocks, la sua prima raccolta di novelle. Le sue che seguiranno subito dopo, Ouvert la nuit e Ferme la nuit e il primo romanzo, Lewis et Irene basteranno in quattro anni a consolidare la sua fama di testimone partecipe e interprete scettico della modernità. Poco dopo, ultimo tocco di perfezione a un quadro già straordinario, sposerà la principessa Soutzo, ricca anche lei, ma soprattutto così bella e intelligente da sembrare, è sempre Cocteau a dirlo, «Minerva che abbia inghiottito la sua civetta». Il successo letterario e mondano continua senza cedimenti per tutti gli Anni Trenta, anche se ad alimentare la verve dello scrittore c'è sempre meno l'euforica contemplazione di un mondo che la velocità e un disincantato cinismo hanno messo di colpo alla portata di pochi eletti e sempre più un senso di stanchezza e di disagio: la corsa sfrenata gli appare ormai come un'inutile dissipazione, il rimpiccìolimento del mondo gli rivela i pericoli dell'omologazione, della inarrestabile mescolanza delle razze e delle culture. Da tema di racconto il viaggio diventa occasione di reportage: Paris Tombouctou (1928), New York (1930), Air indien (1932), La route des Indes (1936). E il cosmopolitismo si vena di mqmetudini e pregiudizi: in Magie noire (1928) ci sono giovani donne di pelle nera che s'immolano al sogno di diventare bianche; ne Vhomme presse (1941) ci sono gli inutili sforzi di un occidentale per modificare il carattere indolente della giovane creola di cui si è innamorato, e in France la doulce (1934) c'erano stati inequivocabili accenti antisemiti. Questo libro, aggiunto agli incarichi diplomatici assunti per conto del governo di Vichy, gli varrà alla Liberazione accuse infondate di collaborazionismo, l'allontanamento dalla carriera, una sorta di esilio in Svizzera e un lungo periodo di silenzio. E, anche dopo, malgrado libri straordinari come Leflagellant de Séville (1951) Hécate ed ses chiens (1954) o Venises ( 1971 ) e un contrastato ingresso all'Académie francaise, una reintegrazione solo parziale. Ora i tempi sembrano maturi per una sua piena rivalutazione. Chissà che non avesse ragione Celine quando profetizzava che nel Duemila si sarebbero letti solo i suoi libri e quelli di Morand. Giovanni Bogliolo