«Noi, ammalati di popolarità»

«Noi, ammalati di popolarità» «Noi, ammalati di popolarità» Le star di ieri: è dura inventarsi un 'altra vita r- «In mezzo al campo un esempio di stile» sconforto lontano da questo ambiente, ma ha trovato un rimedio: «Ho capito che questo è un mondo da prendere a piccole dosi. Solo così ti rendi conto quali sono i veri amici e ti crei nuovi LA NOSTALGIA UCCIDE ti a Salerno: Di Bartolomei aveva giocato nella Salernitana sino al 1990, poi aveva provato, senza successo, a fare il direttore sportivo. Ecco, la chiave del suicida è forse in queste due parole: senza successo. Ieri i cronisti hanno frugato la sua vita, hanno trovato qualche problema economico legato ad una sua compagnia di assicurazioni: ma Di Bartolomei pareva ancora un uomo ricco, dei propri guadagni calcistici e della buona situazione della moglie. Non sembrano esserci motivi pratici - un fallimento finanziario, un amore finito, una malattia - a motivare quel colpo al cuore di mattino, sul terrazzo della sua villa. Senza successo. Quattro anni fa la Nazionale italiana era andata a giocare a Salerno e lui aveva fatto gli onori di casa, aveva organizzato una serata al Panathlon, lui aveva convocato i giornalisti amici, lì al seguito degli azzurri. Aveva chiesto a tutti di ricordarlo, anche con una semplice citazione. interessi». Perché il calcio inghiotte e ti fa sentire quasi un «immortale», ti regala una vita vissuta ai margini di quella reale, ti fa sentire un po' Peter Pan. «Sì, è vero - conferma Giancarlo Sembrava desideroso di avere ancora uno spazio di celebrità. Ma non era mai sceso nel triste, nel patetico, non aveva fatto del reducismo. Di recente aveva telefonato a Liedholm, suo allenatore nella Roma tricolore della quale lui, romano, era il capitano, l'anima, anche il giustiziere, quando folgorava gli avversari con le sue fortissime punizioni: voleva il vecchio maestro svedese a parlare di calcio ai ragazzini della scuola. Di Bartolomei aveva anche cercato di lanciare un giornaletto di football minore. Sapeva scrivere, parlava bene, per tanti anni era stato un punto di riferimento nostro nelle inchieste giornalistiche su problematiche che del calcio non riguardassero soltanto la tecnica, la tattica, la preparazione atletica, ma che appunto toccassero anurie i problemi della vita privata, del professionismo divorante. E del dopo. Possibile che su questo dopo lui si sia incagliato: e in tal caso proprio la sua intelligenza lo avrebbe obbligato a pensare, ad andare al di là della collezione di ricordi belli. Perché altrimenti il calcio che ti ha dato tanto ma che poi ti rifiuta può anche generare in te un anestetizzante menefreghismo. 0 addirittura regalarti la sana scoperta Antognoni - quando smetti ti trovi davanti mille difficoltà, immerso in una realtà diversa, quasi sconosciuta. La famiglia e le amicizie sono importanti, ma talvolta non bastano. Io ho avuto la fortuna di continuare nel calcio, ma se non fosse stato così, sarebbe stato un problema». «Già, ma per chi ha legato la propria vita a questo mondo è difficile riciclarsi - interviene Gigi Radice - io per esempio adesso sto soffrendo. Non mi chiama nessuno, mi sento solo. E sto un po' morendo dentro». Ma questo vale davvero per tutti? No, c'è chi ha saputo, dopo tanti anni vissuti sui tacchetti, appendere serenamente le scarpette al chiodo. Antonio Cabrini per esempio, che non giustifica il gesto del collega, se le motivazioni sono proprio queste, con la «saudade» da pallone. «Bisogna sapersi preparare al delle domeniche della gente comune. Speriamo che di Agostino Di Bartolomei si conosca tutta la verità. Il mondo del calcio - diciamolo cinicamente - sarebbe sollevato sapendo di un suo male fisico (il grande ciclismo piange ancora Ocana, che probabilmente si è ucciso dodici giorni fa per un tumore), di una sua crisi sentimentale, di un problemaccio economico. Se davvero si trattasse soltanto del dopo, il buco nero comincerebbe a fare paura. Perché più il calcio dà - e mai ha dato come in questi ultimi anni -, più il buro nero può diventare o comunque apparire enorme. In ogni caso, quale che sia la verità, si deve convenire che lo sport non insegna a vincere ma neppure a perdere. Anche questo colpo di pistola finisce nel conto in rosso di una entità a priori troppo amata, stimata, beatificata, n indicata come maestra di vita per postulato, o addirittura per dogma. Quando invece i diplomi che dispensa, per indorati che siano, possono non bastare, di fronte ad un tutto cosmico come un male incurabile o ad un nulla sottile come il sentirsi inutile. Gian Paolo Ormezzano RI€ORD@ D momento dell'addio. Tutti sappiamo che prima o poi finisce, quindi ti devi organizzare, crearti nuove aspirazioni. Anche perché tutti sappiamo che rientrare nel mondo del calcio non è facile. Nessuno ti regala il patentino». Anche Paolo Rossi, compagno di Di Bartolomei nel Milan, è d'accordo: lui adesso vive sereno, ha una sua attività bene avviata nell'edilizia, ha chiuso col pallone per sempre, senza rimpianti. «E' vero che è difficile per molti di noi rientrare nella normalità, ma bisogna prepararsi, soprattutto mentalmente. I primi mesi sono duri, poi ci se ne fa una ragione. Ma non è il caso mio. Quando ho lasciato il calcio, l'ho fatto per rigetto tirando un sospiro di sollievo. Lo ammetto. Io sono stato fortunato». LA notizia è terribile, ha l'effetto di una mazzata. Perciò sono sconvolto. Non riesco a capacitarmi, Agostino era un uomo placido e forte, sapeva risolvere con calma e prontezza i problemi suoi e dei compagni di squadra, era una specie di guida professionale per tutti. Evidentemente, stavolta è stato schiacciato da un problema più grande di lui. Lo ricordo quando era poco più che un ragazzino, credo fossimo nel '73 e la Roma vinse il campionato italiano della categoria Primavera. Di Bartolomei era il capitano. Mi impressionò il suo discorso davanti ai coetanei, aveva compiuto 18 anni da un mese e si esprimeva con i toni e la maturità del veterano. Elogiò i compagni di squadra con una saggezza e una misura incredibili e capii di avere a che fare con un giocatore di carisma, nato per dirigere una squadra. Me lo sono ritrovato qualche anno dopo, con lui ho vinto lo scudetto 1982/83, che tempi! All'epoca era uno dei più bravi nel ruolo, era però chiuso da Antognoni, per cui non riuscì mai a fare il salto dalla under 21 alla Nazionale maggiore. Era un ragazzone Emendo, apparentemente overso ma capace di Brunella Ciullini buttar lì una battuta allegra quando l'ambiente, lo spogliatoio ne sentiva bisogno. Era coscienzioso, perfino pignolo, un perfezionista che non si perdonava e perdonava nulla. Interpretava la professione nel modo rigoroso, ed era l'elemento trainante di cui io avevo bisogno. A tutte queste doti univa un'intelligenza attenta. Era uno stakanovista, proprio come Rocca, un altro giocatore professionalmente esemplare. Tecnicamente che devo aggiungere? La mia Roma era maestra nel mantenimento della palla, lui era l'uomo dei lanci lunghi, dal suo piede partivano traiettorie di 40 metri che mi permettevano soluzioni vincenti improvvise. Poi quando si accorse che Vierchowod era veloce come la folgore, cominciò a staccarsi dalla posizione di battitore libero e fluidificò sempre di più con beneficio del collettivo:— Un giorno, era la primavera dell'84, io mi trasferii al Milan. Agostino telefonò e mi chiese se avevo voglia di portarlo con me. Gli dissi di sì, e nacqua la coppia Wilkins-Di Bartolomei. E ora non riesco a capire che cosa possa aver scatenato questa tragedia. Nils Liedholm

Luoghi citati: Roma, Salerno