Segni scavati nell'angoscia

Milano. La grafica del '900 Milano. La grafica del '900 Segni scavati nell'angoscia 'il MILANO I N 255 carte disegnate e I colorate l'arte della prima I metà del secolo: dalla sà Vienna preziosa, lussuriosa, freudiana di Klimt, Schiele, Kokoschka fino a Wols, poeta e sognatore dell'inconoscibile: «Si raccontano le sue piccole favole terrene/su piccoli pezzetti di carta... L'opera d'arte può avere riferimento alla natura/come le fughe di Bach a Gesù Cristo... Non spiegare la musica/non spiegare i sogni/L'inconoscibile penetra tutto... Il mio cane giallo/... m'ha detto/la tua pittura è idiota/Questo mi ha detto». Gabriele Mazzotta inaugura la sede in Foro Buonaparte della fondazione intitolata al padre Antonio con questa cavalcata dalla Parigi cubista e surrealista alla Berlino espressionista, dalla Milano futurista alla Russia di Malevie e alla New York picassianosurrealista di Gorky, fino al 10 luglio. La mostra riprende con respiro europeo lo spirito della prima manifestazione della fondazione, sei anni fa, «Di/segno italiano 1908-1988», itinerari da Francoforte a Berlino e a Zurigo, scorrente da Boccioni fino a Paladino. Nel contempo la mostra riprende anche, nei suoi maggiori punti di forza, la linea critica e ideologica prevalente nella rassegna del 1992 «Il sogno rivela la natura delle cose». Con la presenza ampia di quasi tutte le figure dominanti, Picasso e Matisse, Boccioni e De Chirico, Kandinsky e Klee, Chagall e Mirò, Duchamp e Picabia ed Ernst, Modigliani e Morandi, la scelta non va nella direzione generica e onnicomprensiva della vetrina di ogni linguaggio e di ogni fenomeno, ma ha un suo preciso taglio, in cui l'espressione conscia e inconscia, dalla poesia all'angoscia, ha una qualche prevalenza sui ritmi puri, logici o fantastici, della costruzione d'immagine; rimanendo comunque l'una e gli altri, in via definitiva, al di là e oltre la convenzione e illusione della naturalità. Questa scelta critica è comunque positiva e stimolante, non camuffata di imparzialità; offre una sua linea interpretativa che direi esistenziale, oggi quanto mai necessaria, di una ribadita vitalità dei decenni delle rivoluzioni e delle contrapposizioni. Essa riflette d'altronde la linea e la cultura che hanno presieduto il costituirsi del patrimonio grafico della fondazione, che è l'ovvio asse portante della mostra, con i suoi invidiabili gruppi di opere grafiche di Klimt, Kubin, Klee, Kokoschka, Grosz, Léger, Tanguy e, per l'Italia, di Boccioni, Carrà, De Chirico e soprattutto di Modigliani, Morandi e Sironi. Ad esso si affiancano, oltre ad una ricca serie di opere private, gli apporti di gallerie come Maeght con i suoi Matisse e Mirò, assieme ad esempi di un particolare e prezioso versante del mercato contemporaneo, che ha assunto la sua positiva dimensione nella seconda metà del secolo: è il caso dei Feininger di Ruggerini e Zjnca, dei Malevic di Gmur- zynska di Colonia e dei Gorky di Schwarz. E' ovvio che in un siffatto panorama, comunque vasto e diramato, alcuni nuclei eccellono (Klimt, Modigliani, Boccioni, Picasso, Klee, Kubin, Beckmann, Duchamp, Masson, Gorky, Wols), altri un poco deludono, come nel caso di Kandinsky, Chagall, Matisse, Mirò. Al di là dell'oggettiva difficoltà di tenere tutte le presenze allo stesso livello, quantitativo e qualitativo, la possibilità di confronti ad ampio raggio permette anche di dare un giudizio, nella prospettiva ormai di quasi un secolo, su disparità di livello qualitativo, su interi archi di vita creativa oppure di tempo in tempo, parlando ovviamente del linguaggio e dell'immagine grafica. Dal bel gruppo di fogli futuristi mi sembra emerga chiaramente la comparativa debolezza - intendo mancanza di nerbo, di sostanza d'immagine, con il solo valore dell'invenzione - di quelli di Balla. Emergono anche sottili problemi interni. I fogli di Carrà sono chiaramente firmati e datati a posteriori, per cui ritengo che allo stupendo cubofuturismo di Senza titolo, così connesso con la scultura di Boccioni, si adatti meglio la data 1912, mentre confermerei senz'altro i Ritmi di bottiglia e bicchiere del 1914. Emozionante il confronto in Sironi fra l'autentico plagio boccioniano dell'Autoritratto futurista e la potenza costruttiva e drammatica, mai più raggiunta, dell'altro Autoritratto come «costruttore» della prima metà degli Anni 20, vero e incomparabile «tutto-Sironi». In un'altra linea di tendenza il confronto con la qualità altissima e a suo modo «classica» del segno-immagine di Ernst e con lo scavo onirico che viene estroverso con conturbante impudicizia da Masson e Bellmer sottolinea la povertà esibizionistica del feticista Dalì. Sul largo raggio dei decenni e delle personalità emergono poi impensabili e fascinose connessioni. Di Picasso è esposto un Pierrot a matita del 1918, una di quelle straordinarie immagini «alla Ingres» che equilibrano quelle «pompeiane», le une e le altre emergenti come Veneri dal tuffo nella classicità romana al seguito dei «Balletti russi». Con un salto di quarant'anni e di contrapposte personalità fra l'estroversione estrema del malagueno e l'introversione altrettanto estrema dell'engadinese, gli unici due fogli in mostra comparabili con quello di Picasso sono il Busto e il Ritratto di Maeght di Giacometti, degli Anni 50. Essi si pongono all'estremo cronologico della mostra assieme alla serie formidabile di Wols. In tutti e tre i casi, nei primi due con una presenza impressionante e pur intangibile della «persona» e nel terzo con l'incubo angoscioso di una presenza «autre», estrapolata con mostruosa dolcezza dall'interiorità più oscura, il segno grafico è veramente demiurgico, creatore di mondi. Marco Rosei Pablo Picasso, «Testa di Minotauro», disegno del 1944